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Cinque pezzi facili - Five Easy Pieces


Regia:Rafelson Bob

Cast e credits:
Soggetto: Adrien Joyce, Bob Rafelson; sceneggiatura: Adrien Joyce; fotografia: Laszlo Kovacs; montaggio: Christopher Holmes, Gerald Shepard; interpreti: Karen Black (Ranette), Jack Nicholson (Robert Eroica Dupea), Susan Anspach, Toni Basil, Irene Dalley, Billy Green Bush, Helena Kallianiotes, Lois Smith, Richard Stahl, Lorna Thayer, Ralph Waite; produzione: Bbs; distribuzione: Cineteca Lucana; origine: Gran Bretagna - Usa, 1970; durata: 97'.

Trama:Robert Eroica Dupea (per tradizione in famiglia veniva assegnato un nome proprio legato alla musica,la sorella si chiama Partita, il fratello Fidelio) è un ex pianista vagabondo e sradicato che decide di ritornare a casa dopo una lunga assenza quando apprende che il padre è gravemente malato. Tuttavia l'atmosfera lo soffoca come una ragnatela. Guidato dall'istinto di vita, si rimette in strada senza bagagli.

Critica (1):Mai visto né conosciuto, questo Bob Rafelson, ma il film con cui si presenta, e che potrebbe anche non essere la sua "opera prima", perché l'ipotesi che egli abbia dietro di sé un'esperienza televisiva è legittima, lo garantisce intelligente, e cresciuto alla scuola del cinema migliore. Cinque pezzi facili (o Five Easy Pieces nell'originale, con un richiamo a Easy Rider, in cui Jack Nicholson, qui protagonista, faceva la parte dell'avvocato ubriacone) è infatti fra i migliori film che ci abbia mandati recentemente l'America. E non soltanto per le amarissime cose che dice, del resto non tutte nuove: anche per la sobrietà dello stile, la verità dell'interpretazione, i risultati ottenuti con mezzi relativamente modesti. Le sue virtù, amalgamate con molta semplicità formale ma con una notevolissima densità narrativa e finissima esattezza di disegno, risaltano nel ritratto di un uomo sui trent'anni, Robert Dupea, che racchiude in sé e nell'atmosfera che lo circonda, quasi lo asfissia, una immagine dell'America molto più autentica di quella offertaci sia dai film arrabbiati e rabbiosi dei giovani contestatori sia dai confetti neo-sentimentali dei professorini. Qui niente hippies, niente studenti in rivolta, niente pantere nere, e nemmeno lacrimucce, ma soltanto il singhiozzo di un disadattato che soffre dell'infelicità di vivere in un mondo alienato e alienante, che cerca -e non trova, e fugge e si perde e non sa più a quali certezze aggrapparsi. Un uomo braccato dalla vita, che sciupa tutto quello che tocca perché la sua anima è infetta.
Robert è stato, da ragazzo, un pianista prodigio, ma non ha continuato la carriera. Inquieto, sempre scontento di sé e degli altri, è scappato in California, dove si è messo a fare l'operaio in un campo petrolifero. Ora è di nuovo alla deriva: poiché il padre ha avuto un colpo, egli torna a casa per rivederlo, mescolando il tintore di rinchiudersi in gabbia alla speranza di ritrovare le consolazioni dell'infanzia. Gli incontri avuti per strada, e la stupidità della ragazza a cui si accompagna, hanno invece accresciuto il suo malumore. E a casa la situazione non è certo tale da tirargli su il morale: il padre paralizzato, chiarissimo simbolo di una America che non sa più cosa dire ai suoi figli, è murato nel silenzio, assistito da un infermiere che lo imbocca come un bambino; la sorella maggiore cerca nell'infermiere un conforto alle sue insoddisfazioni sessuali; il fratello, scampato a un incidente, si è rifugiato con una giovane donna nelle gioie del violino e del pianoforte; la musica classica, che anni prima dava sorriso e speranza alla famiglia, oggi a Robert sembra soltanto una droga per fuggire la realtà. Perciò per l'uomo è un cadere dalla padella nella brace. Fallito il tentativo di portarsi via la romantica fidanzata del fratello, Robert abbandona la casa, e approfitta d'una sosta per strada per liberarsi anche della ragazza che nonostante tutto gli vuol bene: salta sul camion d'uno sconosciuto e va verso l'ignoto.
Ben recitato dall'astro sorgente Jack Nickolson, che regge con bravura gli abbondanti primi piani, e da un gruppo di ottimi comprimari (fra i migliori Karen Black e Susan Anspach), ricco di motivi e di idee, il film rappresenta e analizza con molta lucidità lo sgomento dell'americano medio, che più va in cerca della propria identità umana e più si scontra con una società che divora l'individuo. Esemplari sono al riguardo tre incontri di Robert, giocati su corde sarcastiche ma allucinanti nel fondo: con una triviale attaccabrighe, convinta di vivere in mezzo al lerciume (e qui è satireggiato l'idolo dell'ecologia); con una cameriera che simbolizza la fissazione di standardizzare la gente, come i piatti delle tavole calde; con una intellettuale da salotto che fa prediche sociologiche. Giustapposti alla campionessa di ocaggine che si è messa alle costole di Robert e ai suoi lunatici familiari, tutti questi personaggi spiegano gli scoppi di violenza cui l'uomo talvolta si abbandona, e il suo implicito rifiuto d'un ordine dove tutti, inibiti o depressi, diffidano del prossimo e si avvelenano a vicenda.
Vittima ed eroe d'un mondo instabile, di esuli coi nervi a fior di pelle, colorato di seppia e di malva, Robert deve ripetersi più volte, a voce alta, di sentirsi bene. In realtà continuando a fuggire, egli cerca scampo a un crollo che minaccia di coinvolgere conservatori e progressisti, e in cui si riflettono le nevrosi del secolo. Poche volte come qui il cinema americano, sfuggendo all'insidia dell'autocommiserazione, ha saputo esprimere i disinganni del proprio paese, e spargere sale sulla ferita. Altro che Love story...
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 24/4/1971

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Bob Rafelson
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