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Giornata particolare (Una)


Regia:Scola Ettore

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Ruggero Maccari, Ettore Scola; collaborazione alla sceneggiatura: Maurizio Costanzo; fotografia: Pasqualino De Santis; scenografia: Luciano Ricceri; costumi: Enrico Sabatini; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Raimondo Crociani; interpreti: Sophia Loren (Antonietta), Marcello Mastroianni (Gabriele), John Vernon (Emanuele), Françoise Berd (la portiera), Nicole Magny (la figlia del cavaliere), Patrizia Basso (Romana), Tiziano De Persio (Arnaldo), Maurizio Di Paolantonio (Fabio), Antonio Garibaldi (Littorio), Vittorio Guerrieri (Umberto), Alessandra Mussolini (Maria Luisa); produzione: Carlo Ponti per la Compagnia Cinematografica Champion (Roma)/Canafox Films Inc. (Montreal); distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Italia, 1977; durata: 105'.

Trama:È il 6 maggio 1938 e la Roma fascista è accorsa sulle strade per festeggiare Hitler, venuto in visita da Mussolini. In un caseggiato popolare Antonietta, moglie disfatta da sei maternità e dalla fatica di una fanatica "camicia nera" e lei stessa fascista convinta, incontra un suo coinquilino, Gabriele, ex annunciatore radiofonico cacciato dal servizio con l'accusa di essere un "sovversivo" ma, in realtà, perché è un omosessuale. Dopo una iniziale diffidenza la comprensione ha il sopravvento e l'uomo e la donna si confidano reciprocamente le loro pene arrivando anche ad avere un breve incontro d'amore.

Critica (1):La "storia" ci scorre davanti, attraverso le immagini di un Cinegiornale Luce e ci cattura: sono le immagini dell'arrivo di Hitler a Roma, accolto da Vittorio Emanuele III e da Benito Mussolini.
Sono le immagini della più vieta retorica fascista. La storia ufficiale entra nel film all'inizio; ci dice che quel 6 Maggio 1938 fu veramente una "giornata particolare" per migliaia di romani. Le sequenze del caseggiato che si sveglia; quelle della vestizione nelle diverse divise da lupetto, balilla, camicia nera, avanguardista; il gioioso incontrarsi sulle scale e affollarsi all'uscita (tutti, uomini, donne, bambini) ci dicono dell'efficacia della propaganda fascista, cui pochi italiani riuscirono a dire "no". Fuori dunque la storia; fuori l'Italia "virile", maschilista, anche nelle donne; fuori l'Italia del premio per il settimo figlio; l'Italia del consenso. Fuori il "sociale" che è condizione e condiziona il "privato"). Davanti a noi, sullo schermo il privato. Un caseggiato della Roma piccolo borghese; del ceto medio impiegatizio, un'architettura di regime, che pretende di celebrare la sua grandezza attraverso strutture anonime, fredde, come la fontana, al centro del caseggiato, a forma di circo massimo, vuota e priva di vita (solo due ragazzini la animeranno, alla fine, portandovi la calda gioia del gioco dei bambini). Un appartamento di fronte ad un altro appartamento, una donna ed un uomo: sono le due sole presenze animate (insieme alla portiera, che però è la "storia", il sociale che invade il privato, mettendo a tutto volume la radio che trasmette la radio cronaca). La donna, Antonietta, e l'uomo, Gabriele, si accingono a trascorrere una giornata, che anche per loro sarà "particolare".
Antonietta è una "mamma"; sei figli, ancora giovane, consapevole, a livello epidermico, della sua situazione di sfruttata e di emarginata (canticchia con una certa ironia il ritornello di "Mamma" la canzone lanciata al successo in quel periodo da Beniamino Gigli); è sfiorita dal lavoro di casa e da una lunga pratica di oppressa. Non ama più il marito, che del resto è volgare e brutale (un tipico fascista), ma accetta la famiglia perché rientra nel concetto di normalità sociale. Antonietta ha anche tutti i caratteri della donna piccolo-borghese: sogna un'avventura "proibita", che riaccenda in lei lo spirito della vita, che la faccia sentire qualcuno.
Gabriele è un annunciatore dell'EIAR, cacciato perché la sua voce è poco "virile" e perché in sospetto di antifascismo. La dimensione politica di Gabriele è però presto svelata: non è lui scomodo al regime, ma il regime è scomodo a lui; il regime non lo accetta, lo emargina perché poco uomo. È un sognatore dall'ideologia vaga e confusa; crede nella fantasia (la sequenza della "Rumba delle noccioline" è significativa); crede in ciò che è diverso, ma accetta anche passivamente la sua sorte di emarginato. Antonietta lo salva da un proposito di suicidio. Non ha coscienza politica; ha chiara coscienza, invece, di essere emarginato. Tra i due avviene un incontro che è destinato a produrre una scintilla di amore, dove amore è unione nella consapevolezza dell'emarginazione. È anche un incontro tra due culture, quella popolare di Antonietta e quella borghese di Gabriele: prevale, come sempre purtroppo, il fascino della cultura borghese. Antonietta ne è catturata come in una specie di magnetismo (di questo incontro le resterà la copia dei "Tre moschettieri", che conserverà come gelosa reliquia nella scansia dei piatti della cucina, il luogo della sua vita). Gabriele si permette un'aria di superiorità, che agli occhi di lei suona come il fascino dell'istruito. Antonietta è piena di pregiudizi ed acritica sostenitrice del duce e del fascismo (conserva gelosamente un album di fotografie dedicato a Mussolini, sul quale Gabriele pesantemente ironizza e un ritratto del duce fatto coi bottoni, sul quale ancora Gabriele ironizza, richiamando l'inutilità dei bottoni in un'"era" che ha lanciato la "cerniera lampo"). Tra i due nasce l'amore, che è, come dicevo, comunione nella diversità. Il finale, che vede lo schermo di nuovo riempirsi della folla che ritorna dalla sfilata, che vede il ritorno becero del marito-padrone-fascista a riempire con le sue volgarità la casa, vede un'Antonietta, prima nostalgica sognatrice sulle pagine dei "Tre moschettieri" e poi rassegnata donna-oggetto nel letto del marito (significativo il progressivo spegnersi delle luci di casa fino all'ultima, quella del comodino, che lascia un buio denso di significati e di sconfitte). Gabriele viene invece prelevato da due agenti e condotto al soggiorno obbligatorio: anche lui diventerà un eroe inconsapevole della lotta politica contro il fascismo, consapevole invece della propria diversità. È un film condotto sui sentimenti e sulle "piccole cose", quindi apparentemente un film "intimistico" e l'uso di due attori di "cassetta" come la Loren e Mastroianni (statica e piuttosto inespressiva la prima; di abile mestiere il secondo) ha senza dubbio favorito quest'impressione. È un film che sembra partire da un'idea eccellente (la distruzione del mito maschilista) per approdare ad un sentimentalismo di maniera. Non è così: guardato attraverso le "piccole cose", ci si accorge che è un film politico, nel momento in cui fa prendere coscienza di una normalità che è emarginazione e nel momento in cui pone l'accento su di una condizione femminile, che proprio per essere "normale", finisce per non essere più presa in considerazione dalle analisi dello studioso intellettuale. Antonietta è invece la storia della donna della generazione ante e post-bellica della donna sfruttata, tenuta volutamente nell'ignoranza da una morale ipocrita, della donna rassegnata al ruolo paziente e limitato di "angelo dl focolare".
Il limite di questo discorso potrebbe consistere nel fatto che non c'è ribellione, che la presa di coscienza è legata ad una "giornata particolare" ma se si guarda a fondo non poteva che essere così: il fascismo è pure un dato storico, che ha lasciato il segno! Si potrebbe obiettare che c'è stato anche fra le donne chi ha detto "no": è vero, ma le tante Antonietta non erano in condizione di comprenderlo di fronte all'incalzante messaggio del regime e, di fronte al quotidiano lavaggio del cervello, cui l'ideologia borghese (fascista) le sottoponeva (la storia è fatta anche di non prese di coscienza). Questa Antonietta, oggi, riscopre il significato dell'essere donna: per questo il film va considerato attentamente e attentamente meditato: tante "piccole cose" finiscono infatti per creare una politica, un regime, un sistema. Il cinema di Ettore Scola è un cinema "popolare", perché è innanzitutto cinema dei sentimenti, su cui s'innestano più vasti temi sociali e politici; è un cinema d'effetto (anche spettacolare), che si avvale però di una rara capacità a definire "atmosfere", dove individuale e collettivo, privato e politico trovano la loro più piena espressione. È un cinema che forse ha dato il meglio di sé in Trevico-Torino, un film "scomodo" perché lucida rappresentazione delle contraddizioni e degli scompensi di un'arrogante politica industriale, vista attraverso le situazioni di una città, Torino, che sono complementari al fenomeno industriale FIAT. È un cinema che ha come centro l'amore e quindi il rapporto uomo-donna/donna-uomo, mai analizzato in astratto, ma sempre calato nella realtà sociale e politica in cui si esprime (C'eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi e prima ancora Dramma della gelosia): per questo, piaccia o no ai fini teorizzatori della sinistra e della nuova sinistra, è un cinema politico.
Ermanno Alpini, Cineforum n. 169, novembre 1977

Critica (2):Collocando nel 1938 questa storia di solitudine e di amicizia, di emarginazione e di solidarietà, il regista ha voluto amplificare la portata delle contraddizioni enunciate. Infatti, proprio il fascismo - con i suoi miti della virilità e della donna procreatrice, angelo del focolare - rende addirittura paradigmatico il contrasto fra il vissuto e la storia, i sentimenti e le convenzioni, le ragioni dell'individuo (uomo o donna che sia) e quelle della politica. Ma la "profondità prospettica" non concerne tanto la collocazione storica, pur accurata, quando la capacità - tutta stilistica - di aprire i fondali del kammerspiel in un film che ne rispetta essenzialmente gli assunti. Il dramma - o "commedia tragica", secondo la definizione di Scola - è "a porte chiuse", nell'incontro-scontro-confronto di due entità esistenziali alla deriva, ma il respiro narrativo è tale da chiamare in causa ciò che sta "fuori" e che vediamo/sentiamo esclusivamente per via mediale (il cinegiornale d'apertura, la radiocronaca della "grande parata"). Il dato esterno, contestuale, è storicamente collocato nello spazio e nel tempo - il fascismo come forma "limite" di una società repressiva - e informa notevolmente di sé l'evolversi della vicenda. Non però al punto di volerla (o doverla) storicizzare, lasciando ai personaggi il compito di spiegare se stessi.
Di qui un senso di "contemporaneità" - termine assai caro al regista - profondamente calato nella verosimiglianza del dato storico e tuttavia capace di trascenderne le coordinate, offrendosi a letture e interpretazioni non necessariamente o meramente contingenti. È quella che Lino Miccichè, in una recensione al film, ha chiamato la "irrealistica paradossalità" dell'invenzione narrativa operata dal regista, la quale non "chiude" su quello che il critico chiama "l'arbitrario" condensato dell'alterità fascista", ma si apre a qualcosa di più: "È un film sulla ufficialità e sulla "privacy", sulla donna e sulla diversità, sulla famiglia e sulla solitudine, sul consenso di massa e sull'alienazione, sulla libertà e sul Dominio" ("Avanti!", 20/05/1977). E chiaro che per "irrealistica paradossalità" il critico intende - in negativo - anche talune smagliature narrative: "i diversi testi della retorica fascista mescolati tra loro, l'irrealtà di una figura di casalinga anni Trenta così improvvisamente disponibile, l'improbabilità di un prelevamento di un confinato a conclusione di una giornata siffatta ecc.". Ma che dire allora dell'improvvisa disponibilità eterosessuale del protagonista? Ciò che più sembra stare a cuore al regista risiede nel costringere la quotidianità apparentemente più banale ad entrare nel perimetro di una situazione-limite dove quella banalità si spiega in tutta la sua complessità, originando comportamenti imprevedibili e imprevisti. Ma - a ben guardare - l'imprevedibile e l'imprevisto sono soltanto supposti dai "ruoli" a cui i due "reietti" vengono relegati dal sistema sociale: l'isolamento ghettizzante del "diverso", l'adesione della donna a modelli di obbediente funzionalità estranei o addirittura contrari al suo sentire. Latente o manifesta, dolorosa o mascherata, la rassegnazione ai "ruoli" e ai diversi destini (l'impossibilità di lavorare e il confino per lui, il dovere di lavorare e la reclusione domestica per lei) è l'elemento che entra in crisi nel corso di questa giornata così particolare. E poco importa che il buio della notte restituisca i personaggi alla tirannia di quei ruoli e modelli: la trasgressione c'è stata e resterà, quantomeno nella memoria di chi l'ha vissuta.
Scola ha avuto modo più volte di manifestare tutto il suo dissenso a proposito di quei registi che, senza essere Fellini, avvertono il bisogno di raccontarsi la "loro" vita, quasi che lo spettatore non aspetti altro. E contro l'autobiografismo si muovono in genere i suoi film, con poche motivate eccezioni. Per Una giornata particolare la memoria vale soprattutto sul piano visivo. Ha ben poca importanza che alla via dei Fori ci fosse quel giorno anche Scola, vestito da "figlio della lupa". Hanno importanza i "colori" di quel ricordo, perché, trasferiti nel décor del film, ne divengono una componente essenziale, grazie naturalmente anche al lavoro "luministico" di Pasqualino De Santis e alle soluzioni scenografiche dell'inseparabile Luciano Ricceri: "Già in partenza tutto quello che riguardava l'ambientazione e tutti i capi di vestiario erano stati decolorati. Poi girammo con un filtro speciale, e quindi decolorammo ancora in stampa. Insomma, fu una sottrazione progressiva dei colori, fino quasi a farli scomparire, a farli diventare bianco e nero. Una volta arrivati a questo punto, si cominciarono ad aggiungere i colori per fare risaltare magari in tutta una scena soltanto una. rosa in qualche punto. E questo non fu soltanto per fare assomigliare maggiormente la fotografia ai pezzi di documentario con cui avevo aperto il film, ma perché i ricordi miei, della casa in cui abitavo a Piazza Vittorio a quell'epoca, sono in quella tonalità. Il colore della Roma di quei tempi [...] nel mio ricordo è un non colore neanche tanto grigio ma un po' chiuso, un po' spesso, come quello di una nebbia dentro le stanze, che poi al film è servito come lieve simbolo - anche se io i simbolismi li amo poco - di chiusura, di prigione; anche lì di esclusione".
Roberto Ellero, Scola, La Nuova Italia, gennaio/febbraio 1988

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