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Act of Killing (The) - L'atto di uccidere


Regia:Oppenheimer Joshua

Cast e credits:
Fotografia: Carlos Arango de Montis, Lars Skree; musiche: Elin Øyen Vister, Karsten Fundal;
montaggio: Niels Pagh Andersen, Janus Billeskov Jansen, Mariko Montpetit, Charlotte Munch Bengtsen, Ariadna Fatjo-Vilas Mestre; costumi: Anonymous; suono: Elin Øyen Vister; collaborazione alla regia: Christine Cynn, Anonymous; produzione. Signe Byrge Sorensen, Joram Ten Brink, Anne Köhncke, Michael Uwemedimo, Joshua Oppenheimer, Christine Cynn, Anonymous per Final Cut For Real Aps in coproduzione con Piraya Films As-Novaya Zemlya Ltd-in associazione con Spring Films; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Danimarca-Norvegia-Gran Bretagna, 2012; durata: 120’.

Trama:Negli anni successivi al colpo di stato militare in Indonesia, nel 1965, i paramilitari della Gioventù Pancasila che appoggiavano il regime, aiutati da sadici criminali uccisero più di un milione di presunti comunisti. Questi omicidi sono rimasti impuniti e i responsabili - come Slim Anwar Congo e Herman Koto - sono ancora oggi persone influenti, che possono contare sul sostegno di politici corrotti. Questi uomini ricordano con orgoglio la loro lotta contro i comunisti e raccontano nei minimi dettagli il modo in cui uccidevano i nemici, spesso ricreando veri e propri set cinematografici...

Critica (1):La tragedia vissuta dall'Indonesia in seguito al colpo di stato militare del 1965 è nota, così come sono conosciuti i colpevoli, i complici e le vittime. L'estrema destra e la fazione musulmana del paese, col benestare dell'Occidente, hanno perpetrato un genocidio ai danni dei membri e dei simpatizzanti del partito comunista indonesiano, filocinese – il terzo del mondo per grandezza, contava prima del massacro 300 000 aderenti. La strategia impiegata per sbarazzarsi di questo potente partito ricalca per molti versi quella che i nazisti hanno sperimentato con successo in Germania, in seguito all'incendio del Reichstag. Con la differenza che in Indonesia, paese che dal 1965 ha ottimi rapporti commerciali e politici con l'Occidente, i partiti che hanno concepito il genocidio sono tutt'ora al governo e che i capi delle bande di paramilitari che lo hanno compiuto presiedono riunioni pubbliche in cui lo sterminio non viene negato, ma esaltato e trasformato nel culto nazionale di una società libera perché fondata sullo sterminio dei comunisti. Joshua Oppenheimer penetra questo mondo assurdo da una porta che il cinema europeo conosce bene: come si filmano i boia? Per lungo tempo, la risposta è stata quella che la fiction si è data ispirandosi, tra l'altro, alla storia dell'arte, definendo il canone morale entro cui si rappresenta il rapporto tra boia e vittima: il primo di spalle, il secondo di fronte. Da alcuni anni, il cinema, soprattutto l'asiatico, sposta questi limiti, partendo da un quadro documentario, che il racconto fa evolvere dall'interno nei modi più diversi, non esitando in questo processo a dare un volto al boia. Il caso più notevole, è quello del cambogiano Rithy Panh e del suo S21 (2002). Ma, mentre Panh si trovava a spezzare il silenzio sul genocidio Khmer, Oppenheimer ha davanti a sé la situazione opposta, quella in cui gli autori del genocidio evocano i propri atti di gioventù con la bonomia spavalda, a tratti veramente surreale, di vitelloni da bar. In altre parole, il problema del film è simile a quello che dava da pensare a Frazer il quale, all'inizio del suo studio sulla magia e la religione, si chiedeva come fosse possibile che le civili magistrature della Roma tardo repubblicana convivessero con la truce figura del Rex nemorensis, al tempo stesso sacerdote e omicida. The Act of Killing parte da questo punto e, invece di schivarlo, lo enfatizza trovando in questo bisogno patologico, presente in tutti i protagonisti del film, di interpretare (l''acting' del titolo) il crimine, di ripeterlo senza fine, in tutti i modi possibili, un metodo d'analisi prezioso. del passato e del tempo presente.
Eugenio Renzi, il manifesto, 17/10/2013

Critica (2):Durante la visione delle quasi tre ore del director’s cut di The act of killing i punti di riferimento dello spettatore finiscono spesso per vacillare.
Non solo perché questo documentario fuori dal comune verte su un argomento di per sé piuttosto inquietante: lo sterminio di massa compiuto in Indonesia dai gruppi paramilitari all’indomani del golpe del 1965, o meglio il ricordo e la percezione di questo sterminio nella coscienza di una nazione.
Ma soprattutto perché le modalità con cui viene rappresentato – costantemente giocate sull’incursione della finzione nella realtà (i responsabili degli eccidi mettono in scena alcuni di quegli episodi, sulla falsariga del cinema di propaganda di allora), sulla presenza del surreale e del paradossale (i colpevoli possono impunemente vantarsi dei crimini mentre i sopravvissuti e i parenti delle vittime sono condannati al silenzio) – si discostano da come ci aspetteremmo che fosse trattato un tema simile. In questo modo il film mette costantemente in discussione le nostre categorie di giudizio.
Quello che ci mostra è l’incredibile “normalità” di quanto avvenuto in Indonesia dopo il golpe che portò al potere Suharto: per certi versi, è come se i nazisti avessero vinto e potessero impunemente vantarsi delle violenze compiute ai danni degli ebrei. The act of killing, però, non si limita ad additarci quella normalità, e a condannarla, ma piuttosto ce la fa esperire. I costanti passaggi tra finzione e realtà finiscono per avere un carattere ipnotico e noi siamo come proiettati in quella normalità e messi alla prova: una volta dentro ad essa, come giudichiamo i fatti di cui veniamo a conoscenza?
Il film di Joshua Oppenheimer – alla base del quale c’è un lavoro di dimensioni gigantesche (cinque anni di riprese per un totale di più di 1.000 ore di girato) – fornisce diverse chiavi di lettura con le quali addentrarsi in questa materia scabrosa.
Una di queste è la contrapposizione tra due di questi criminali impuniti, Anwar e Adi. Se il primo reagisce in modo emotivo e sembra costantemente oscillare tra due opposte reazioni (da un lato l’esaltazione per le imprese compiute, la spacconeria, dall'altro l’emergere del rimorso), il secondo appare più razionale, calcolatore: a differenza del primo è disposto ad ammettere che la propaganda anticomunista era fondata su falsificazioni ed esagerazioni, ma non sembra provare alcun tipo di rimorso per quel che ha fatto; lo giustifica piuttosto in nome del principio realista secondo cui, nella storia, è sempre il vincitore a dettare le regole che stabiliscono ciò che è giusto o sbagliato.
E se il primo può facilmente apparire come un pazzo, un esaltato, il secondo (che vediamo aggirarsi in un centro commerciale e compiere azioni che ognuno di noi compie quotidianamente) ci assomiglia, e rende evidenti, applicandoli in forma esasperata, i principi su cui si reggono, normalmente, le relazioni politiche e la ragion di stato: ecco, dunque, che la normalità al centro del film assume ancora una volta un carattere perturbante.
Non solo per aver portato alla luce una realtà poco nota al mondo, ma anche per la capacità di riflettere sulle zone più oscure dell’animo umano (il film è piaciuto a Werner Herzog, che ne è diventato produttore esecutivo) e sulle stesse modalità della rappresentazione documentaristica. The act of killing è certamente destinato a diventare una pietra miliare nella storia del documentario.
Rinaldo Vignali, cineforum.it, 16/9/2013

Critica (3):

Critica (4):
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