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Terzo uomo (Il) - Third Man (The)


Regia:Reed Carol

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo di Graham Greene, Alexander Korda; sceneggiatura: Graham Greene, Carol Reed, Orson Welles; fotografia: Robert Krasker; musiche: Anton Karas - canzoni: "Managua, Nicaragua" di Irving Fields e Albert Gamse; "Das Alte Lied" di Henry Love; montaggio: Oswald Hafenrichter; scenografia: Joseph Bato, John Hawkesworth, Vincent Korda; effetti: W. Percy Day; interpreti: Orson Welles (Harry Lime), Joseph Cotten (Holly Martins), Trevor Howard (Maggiore Calloway), Alida Valli (Anna Schmidt), Paul Hoerbiger (Porter), Siegfried Breuer (Popescu), Ernst Deutsch (Barone Kurtz), Erich Ponto (Dottor Winckel), Wilfrid Hyde-White (Crabbit), Bernard Lee (Sergente Paine); produzione: London Film Productions-British Lion Film Corporation; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Gran Bretagna, 1949; durata: 93’.

Trama:Poco dopo la fine della guerra, Holly Martins, scrittore canadese, si reca a Vienna, dove un suo amico d'infanzia, un certo Harry Lime, sta svolgendo un'attività di carattere umanitario. Martins si propone di collaborare con l'amico, ma giunto a Vienna, apprende che Harry è morto il giorno prima in seguito ad un incidente. Al funerale dell'amico, Martins conosce Calloway, capo della polizia militare americana, il quale gli rivela che Harry era un malfattore. Martins non ci vuol credere e intanto inizia, per suo conto, indagini sulla morte accidentale di Harry. Interroga vari amici del defunto, i quali sostengono che solo due persone erano presenti al momento dell'incidente, mentre a Martins risulta che i presenti erano tre. Riparla della cosa con Calloway, il quale può provargli che Harry spacciava penicillina falsificata, provocando numerose morti. Martins decide di partire e si reca a salutare Anna, grande amica di Harry. Uscendo, di notte, dalla casa di Anna, vede Harry in carne ed ossa, lo chiama, ma questo fugge. Chi è l'uomo sepolto con il nome di Harry? E cosa sta succedendo?

Critica (1):Uno dei compiti più difficili per il critico è quello di lodare o di incolpare chi lo merita", sostiene Graham Greene in Vie di scampo (tra parentesi, e parlando di quella che definisce la sua "breve e comica" esperienza hollywoodiana). Ha ragione (ma lo stesso discorso potrebbe applicarsi anche al pubblico). Ora un restauro ci riporta Il terzo uomo nella forma e nel bianco e nero smagliante del direttore della fotografia Robert Krasker. (...) Chi lo vedrà tornerà a chiedersi a chi vadano attribuiti i meriti maggiori di un film straordinario che ha almeno tre padri (quattro con il produttore Alexander Korda). A uno scrittore strepitoso e "cattivo" come Graham Greene, che ha inventato la storia e scritto la sceneggiatura? A Sir Carol Reed che ha inventato una Vienna cupa, barocca, espressionista, sbieca, angosciosa? A Orson Welles, che interpreta uno dei suoi molti villain – più cattivo di Quinlan, più cinico di Kane – dandoci uno dei personaggi più duri del cinema e restando pur tuttavia, in qualche modo, un eroe? "Odiavo Harry Lime", confessava Welles, a vent'anni dal film. "Non aveva passioni, era freddo: era Lucifero, l'angelo caduto". Come dargli torto? Lime è l'uomo che nella Vienna del 1949, devastata dalla guerra, non ha scrupoli a trafficare in penicillina adulterata, a settanta sterline la fiala, mietendo vittime come un angelo della morte. Eppure la bellissima Alida Valli continua ad amarlo e a chiamarlo "povero Harry", e il suo amico che arriva dall'America per rivederlo, Joseph Cotten – un attore scelto per riprodurre il rapporto di fascinazione, amore e disamore che esisteva tra lui e Kane in Quarto Potere – ci mette un bel po' a decidere che Lime è passato dalla parte dei nemici. E lo spettatore – che ha assistito al suo funerale e lo considera morto, ma si aspetta anche l'arrivo di Orson Welles – deve attendere a lungo la sua entrée, come per una superstar: cinquantanove minuti, prima che sentiamo risuonare i suoi passi, e ben cinquantasette allusioni verbali piene di amore e odio, dieci rulli ad anticipare il suo arrivo, tra le ombre di un portone, preannunciato dal rumore dei passi nella notte di Vienna. Una scena indimenticabile che Welles, pur sostenendo di avere scritto ogni altra riga della sua parte (il resto era "dell'impareggiabile Graham Greene"), attribuisce al regista. Così come la lunga camminata finale, al cimitero, di Alida Valli. "Puro Reed", commenta Welles nella sua lunga intervista a Peter Bogdanovich. Se il finale è "puro Reed", l'inizio, con la sua casualità, è puro Greene. Racconta lo scrittore che gli era capitato un bel giorno di buttar giù sul lembo di una busta un "incipit": "Avevo dato l'ultimo addio a Harry, una settimana prima, quando la sua bara era stata calata nel terreno gelido di febbraio: e non senza incredulità, pertanto, lo vidi passare, senza un solo cenno di riconoscimento, tra la ressa di sconosciuti dello Strand". Dice Greene che allora non aveva la benché minima idea di come continuare e come spiegare la situazione. Ma tanto bastò: quando Alexander Korda gli chiese di scrivere un soggetto per Carol Reed, dopo Idolo infranto (che era ispirato al suo racconto Lo scantinato), Greene gli mise in mano il suo incipit - traslocato a Vienna. Korda avrebbe preferito una storia sulla complicata situazione della Vienna di quegli anni, "divisa tra le zone americana, russa, francese e inglese, mentre il centro della città era amministrato a turno da ciascuna potenza per un mese e pattugliato giorno e notte da ronde di quattro soldati delle quattro potenze". Ma Korda cedette. Greene, sostenendo che "è impossibile per me scrivere una sceneggiatura senza prima scrivere una storia", si accinse a completare il racconto – pur continuando a sostenere che Il terzo uomo (da lui definito "il rozzo materiale per un film") non è stato scritto per essere letto, ma solo per essere veduto. Scoprì l'esistenza del racket della penicillina. A Vienna, un ufficiale dell'Intelligence gli rivelò l'esistenza di una sorta di Polizia clandestina che si muoveva liberamente attraverso la rete fognaria della città. La storia prese forma. Poi, racconta, lui e Reed percorsero insieme "chilometri di tappeto" discutendo ogni singola scena, e smontando la storia originale, scena dopo scena, spesso su richiesta di Greene. A tu per tu, recitarono insieme le parti di tutti. Litigarono: Greene, per esempio, che aveva immaginato un lieto fine, non era affatto convinto che il finale così spoglio e malinconico voluto da Korda avrebbe retto. Ammise poi che non aveva fatto i conti con il talento di Greene e con la musica dello zither di Anton Karas, il celeberrimo tema del Terzo uomo, che tiene insieme anche questa difficile sequenza così come crea tensione e continuità in tutto il film. Risultato (secondo lo scrittore): "il film è migliore del soggetto". Quanto a Welles, che nonostante il suo molto annunciato arrivo resta in scena complessivamente poco (e se la cavò con dieci giorni di riprese, che andarono a finanziare il travagliato completamento del suo Othello) si attribuisce pochi meriti: come l'idea delle dita di Lime che compaiono attraverso la griglia di ferro, e, soprattutto, il celebre discorso che, sospeso sopra Vienna, in una cabina della ruota del Prater, il superomistico Harry Lime indirizza all'amico Holly Martins, mentre indica i "puntini", gli esseri umani lì in basso che lui è pronto a sacrificare: "In Italia, sotto i Borgia, per trent'anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos'hanno prodotto? Gli orologi a cucù". Bella sintesi (anche se la precisione storica è, come dire, impressionistica), discorso impressionante, grande lezione di recitazione. E di stile da parte degli svizzeri: che garbatamente reagirono spiegando come in Svizzera non si siano mai fabbricati orologi a cucù - i quali vengono invece dallo Schwarzwald, in Baviera. (Non è finita: Welles più tardi confessò ad André Bazin che la storia degli orologi a cucù... l'aveva rubata "a una vecchia commedia ungherese).
Irene Bignardi, La Repubblica, 29/05/2000

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