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Profondo rosso


Regia:Argento Dario

Cast e credits:
Soggetto: Dario Argento, Bernardino Zapponi; sceneggiatura: Dario Argento, Bernardino Zapponi; fotografia: Luigi Kuveiller, Ubaldo Terzano; musiche: Giorgio Gaslini, Goblin; montaggio: Franco Fraticelle; scenografia: Giuseppe Bassan; costumi: Elena Mannini; effetti: Carlo Rambaldi, Germano Natali; suono: Mario Faraoni; interpreti: David Hemmings (Marcus Daly), Daria Nicolodi (Gianna Brezzi), Gabriele Lavia (Carlo), Macha Méril (Helga Ullman), Eros Pagni (Commissario Calcabrini), Giuliana Calandra (Armanda Righetti), Glauco Mauri (Prof. Giordani), Piero Mazzinghi (Bardi), Aldo Bonamano (padre di Carlo), Liana Del Balzo (Elvira), Geraldine Hooper (Massimo Ricci, l'"amico di Carlo"), Nicoletta Elmi (Olga Rodi); produzione: Claudio e Salvatore Argento per Seda Spettacoli; distribuzione¨Cineteca Nazionale; origine: Italia, 1975; durata: 130’. Vietato 14

Trama:Durante una conferenza sulla parapsicologia, la sensitiva tedesca Helga Ullmann avverte la presenza, in sala, di qualcuno che cova pensieri omicidi. La sera stessa, la donna muore per mano di un ignoto assassino. Testimone casuale del delitto, senza poterne individuare l'autore, è un giovane pianista inglese, Marcus Daly, i cui amici sono la giornalista Gianna Brezzi e Carlo, il figlio ubriacone di un'anziana ex attrice. Deciso a scoprire per suo conto chi ha ucciso Helga, Marcus è però ostacolato, ad ogni successivo passo verso la verità, da nuovi efferati assassini...

Critica (1):Come un fiume sotterraneo oscuro e rimosso, lentamente stanno venendo alla luce gli anni Settanta. Anni difficili, da allontanare, da sublimare, da saltare a pie' pari per finire nella tranquilla banalità degli anni Sessanta – pacifici e rivoluzionari, chiari e sinceri che è un piacere parlarne e starci assieme. Niente a che vedere col decennio successivo – i pantaloni a zampa d'elefante, le camicie colorate e aperte sul petto, la rivoluzione sessuale ormai avviata e piena d'incognite e di pericolose sbandate, il terrorismo arrabbiato e definitivo. Cinematograficamente, quando verrà completamente messo alla luce, questo decennio porterà con sé l'orma né di Bellocchio, né di Fellini e neppure quella di Bertolucci o dei fratelli Taviani. Sarà – assieme a Leone, forse – Dario Argento, mostro sacro d'una qualità autoriale misconosciuta e avversata o adorata e semplificata, a chiarire, con i suoi film, gli orrori, le paure e le perplessità di quegli anni. E già oggi diverte leggere le stroncature poco edificanti della critica "ufficiale" che lo bastonava selvaggiamente (almeno qui, in Italia) mentre i fanzinari lo amavano e godevano potentemente dei tragitti pericolosi ai quali erano costretti dai suoi film. E Profondo rosso finisce con lo spezzare in due il decennio, a imporre – con la sua folle articolazione – un'ipotesi alterata e barocca di fare cinema. Nessuna concessione al buon senso, nessun tentativo di essere "politicamente corretti", nessuna debolezza autoriale nei confronti dei piaceri osceni e formali della critica, nessun gioco. Di contro: qualche grossolana ironia, un allontanamento violento da un pensiero realistico e – incredibile a dirsi – verosimile, un attaccamento evidente al subconscio più spietato, una volontà precisa nel muovere la cinepresa ad esplorare il pericolosissimo campo dei sentimenti e delle emozioni umane, una disarmante capacità di assemblare tutti i materiali d'uso del genere orrorifico. Profondo rosso fa da spartiacque: accoglie le malefiche perversioni dei primi tre 'gialli' (L'uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code, Quattro mosche di velluto grigio) e scaglia avanti quelle che saranno le ossessioni dei film seguenti, dove la realtà diventa un luogo troppo stretto e, al contempo, troppo poco claustrofobico per i gusti appassionati di Dario Argento. Ridicoli i paragoni, le corrispondenze, le assonanze presunte, i rimandi tentati con altri registi: Argento pesca nel torbido delle proprie passioni. Come un amante infedele ma sensibile e voluttuoso, lascia che i propri film mostrino tutto l'amore per il cinema e, contemporaneamente, lascia che il proprio mondo si contamini con prodotti bassi, di purissimo consumo, di dichiarata attenzione alle strategie di mercato. Per questo si lascia sedurre dall'accumulazione d'idee, di proposte, di stimoli: inonda il suo pubblico di tensioni, di immagini raccapriccianti. Costruisce un bestiario di possibili uccisioni e fa navigare la sua storia all'interno d'improbabili cunicoli dove la morte arriva, puntualmente, preferendo il taglio allo squartamento. Nel giocare con le pulsioni del pubblico, usa l'acqua, gli spigoli, le lame. Si accanisce con i dettagli fino al punto di costringere chi guarda a un feticismo assoluto e perverso.
La nostra mente dimentica ben presto di seguire i due protagonisti del film (un musicista jazz ed una giornalista in cerca di scoop) nei loro pellegrinaggi, nel loro goffo tentativo di scoprire chi e perché ha ucciso la medium straniera. Il nostro corpo finisce in un gorgo d'immagini ben più potenti della storia stessa, si fa assoggettare dalle musiche, dagli accostamenti di colore, dalla discesa negli inferi della nostra mente perversa e adolescenziale. Lascia che il nostro pensiero, scollatosi dalle categorie logiche alle quali siamo abituati, fluttui nei meandri spaventosi dell'innocenza negata. I bambini, in questo film, sono tutto. È la loro terribile storia quella che viene narrata. È la loro voce, il loro canto notturno (la nenia che accompagna gli omicidi), sono i loro orribili disegni naïf, le imprecisioni e le rimozioni del ricordo. Nel film non c'è spiegazione sociologica né psicologica né fisiologica che tenga. E, come già detto, neppure spiegazione narrativa, ferrea logica della consequenzialità dei fatti: solo una storia irrinunciabile, che deve e che vuole essere narrata in quel modo perché, così, riesce a smuovere sentimenti ed emozioni, perché, così, riesce ad andare al fondo delle cose nello stesso, terribile modo, con il quale, una seduta di psicanalisi, può portare alla pazzia il paziente che, improvvisamente, scopre la terribile possibilità di poter ricordare. Per mettere in movimento questo circolo vizioso e mostruoso, Argento lascia che davanti alla sua cinepresa scorrano tutti i mali, tutte le scorrettezze, le imprecisioni, le mostruosità, le demoniache ambiguità che questo mondo può proporre: come un oggetto hi-tech che esibisce i suoi stessi meccanismi, fa entrare in scena il dolore attraverso l'imperfezione del corpo, le ambiguità del reale attraverso l'omosessualità esibita, la problematicità del pensiero attraverso le capacità paranormali, il male puro attraverso la personificazione animale. E, naturalmente, l'inquietante infanzia, l'indicibile pensiero infantile, l'improponibile mistero che si nasconde nel pensiero di ognuno di noi nei primi anni di vita. Infine, le pratiche "popolari" che rimandano storicamente al male, l'uso di bambole, di espedienti meccanici, le mostruosità da fiera, da baraccone. E ancora le piazze notturne e vuote, le case di campagna, le ville maledette... Questo il contenuto. La forma, invece, gode delle abilità magistrali d'un occhio dal gusto puramente fotografico, delle conoscenze profonde date dall'amore maniacale per l'oggetto meccanico. Non c'è regista italiano che sappia godere nello stesso modo delle possibilità tecniche del mezzo. Ed è proprio il perfetto incontro tra il materiale oscuro del sentire umano e la traduzione visiva di tale magma a rendere Profondo rosso un testo tanto gustoso al palato, capace di rese diversissime a seconda dell'ottica di cui ci si arma: nessun corpo, nessuna fisicità espressa, solo un lunghissimo respiro e un gusto dovuto al fumo che entra nella gola, dilaga nei polmoni, annega il cervello. Fumo denso e, per questo, pieno di sapori, capace di ottime sollecitazioni, prezioso compagno di viaggio...
sentieriselvaggi.it

Critica (2):Dopo lo sfortunato, anche commercialmente parlando, tentativo di ordine tendenzialmente storico con Celentano e Cerusico (si aveva l'impressione di uno sceneggiato rifiutato, non si sa perché, dai programmisti televisivi), come rappresentanti del costume popolare risorgimentale, di « Le cinque giornate di Milano», Dario Argento (considerato a torto, con l'entusiasmo di chi deve scrivere per fabbricare miti di bassa misura ad uso dei rotocalchi, un allievo minimo di Hitchcock con quadri di riferimento di natura politica) è ritornato ai suoi preferiti intrugli contortamente e pacchianamente terrificanti. Profondo rosso (che ricalca sotto molti aspetti L'uccello dalle piume di cristallo) narra di una sequenza di sanguinolenti delitti in un ambiente romano contraddistinto morbosamente da una integrale patologia latente (nelle vie si stagliano sullo sfondo prostitute, figure grigie dai tratti manifestamente criminali). Implicato, accidentalmente, nell'intreccio è anche un pianista statunitense che, stoltamente, si mette a fare l'investigatore. Questa sorta di artista di quest'ordine dagli occhi consunti è uno di quei tipi che è costretto, come in un incubo, a mettersi nei guai. Più giustificata nell'impresa è una
giornalista, modello cinema americano degli anni cinquanta, che spera di «fare il colpo» (...) C'è anche un altro pianista che la notte sputa sul mondo, con addosso qualche bottiglia e un branco di psichiatri parapsicologi. Tutti sanno che la versione terapeutica della psicanalisi è roba di lusso: i proletari devono affrontare la nevrosi con l'unica speranza di non venire rinchiusi in manicomio (non fare parte della classe dominante significa venire imprigionati anche per essere «curati»: l'ordine pubblico fanfaniano non passa solo attraverso il carcere, anche se in qualche caso la giustificazione ideologica trova sostegni pseudoscientifici). Argento pare uno di quelli che può permettersi di spendere qualche centinaio di milioni per esorcizzare le proprie paure. Il film è una sorta di allucinazione, priva della lucidità razionale del thrilling, completamente priva di riferimenti alla realtà sociale.
In questo incubo abitato da mostri e da mamme con la mannaia facile (l'artrosi e la fragilità della vecchiaia non hanno correlazioni con i complessi edipici sedimentati) esplodono i connotati propri dell'ideologia fascista. L'assassina è una mamma cadente, è vero, ma è soprattutto una povera malata mentale che ha ucciso il marito e rovinato l'esistenza del figlioletto: se fosse stata rinchiusa il delitto non ci sarebbe stato. Non solo: narrativamente Argento costruisce il tutto con l'ottica propria dei film catastrofici che superholliywood ha messo in cantiere per fare dimenticare Saigon e Watergate (cioè i dati concreti) senza retrocedere nell'intento di evidenziare che il pericolo c'è e solo raccogliendo le forze si può fare fronte ai pericoli (divenuti magicamente arcani e non puù politici; conviene tirare in ballo il mistero che deresponsabilizza le masse e copre i criminali autentici); il protagonista, svelati i mostri che si celano dietro ogni angolo (Argento qui è un esponente della minoranza silenziosa supermoralizzatrice) e ogni nostro vicino (come in ogni autentica ideologia reazionaria la struttura della riflessione si colora di istanze paranoiche) può tornare all'arte e all'amore. Infatti con la restaurazione dell'ordine, con i pazzi decapitati per necessità, finalmente la città non è più un universo grigio: si può pensare al matrimonio e al concertino. E in più il regista lascia anche intendere che, apocalitticamente, è il destino (o peggio la provvidenza) che ricompone i perduti equilibri al di là della debolezza (a causa della stupidità e dello scarso vigore repressivo) della polizia. Profondo rosso è una pellicola densa di colpi di scena assurdi e inutili che seducono per qualche istante: ma la paura artificiosa vende bene. Le decapitazioni, i coltelli da cucina, i vetri rotti, le tumefazioni, le cantilene infantili, i riflessi negli specchi, i cadaveri mummificati: e tutto senza una venatura di erotismo, con le donne assassine o cretine, i bambini sadici e i volti stravolti dei genitori; ammazziamo tutti e finalmente incomincia la vita che, guarda caso, ha aspirazioni piccolo borghesi: questa è la filosofia di Argento in questa tetra fatica mortuaria.
Gianluigi Bozza, Cineforum n. 145, 6-7/1975

Critica (3):

Critica (4):
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