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Kundun - Kundun


Regia:Scorsese Martin

Cast e credits:

Sceneggiatura: Melissa Mathison; fotografia: Roger Deakins; montaggio: Thelma Schoonmaker; musica: Philip Glass; scenografia e costumi: Dante Ferretti; interpreti: Tenzin Thuthob Tsarong (il Dalai Lama, adulto), Guyrme Tethong (il Dalai Lama adolescente), Tulku Jamyang Kunga Tenzin (il Dalai Lama a 5 anni), Tenzin Yeshi Paichang (il Dalai Lama a 2 anni), Tencho Gyalpo (la madre), Tenzin Topjar (Lobsang, bambino), Tsewang Migyur Khangsar (il padre), Tenzin Lodoe (Takster), Tsering Lhamo (Tsering Dolma), Geshi Yeshi Gyatso (il messaggero); produzione: Martin Scorsese, Melissa Mathison per Cappa-De Fina/Touchstone Pictures; origine: USA, 1997; durata: 134’.


Trama:Tibet 1937. In una famiglia di contadini viene trovato un bambino di due anni, riconosciuto come la reincarnazione del Budda vivente, il Kundun, la reincarnazione umana del Buddha vivente. Viene affidato ai monaci tibetani della città santa di Lhasa dove viene educato progressivametne ai propri doveri, fino all'investitura che avviene al diciottesimo anno.

Critica (1):È stato lo stesso Scorsese a riassumere l’eccentrica commistione “religiosa” di Kundun: “Un film tibetano, fatto da un cattolico, scritto da una buddista e girato in un paese mussulmano, dove ogni giorno c’è l’invito alla preghiera”. Cioè, la storia del quattordicesimo Dalai Lama, diretto da un autore che da giovanissimo aveva studiato per diventare prete, scritto da Melissa Mathison (l’autrice di E.T., buddista) e girato, con attori non professionisti tibetani, in Marocco (dove Scorsese aveva già realizzato L’ultima tentazione di Cristo). La meraviglia è che, da queste diverse “tentazioni” mistiche, da queste spiritualità contrastanti e dall’incontro di energie tanto dissimili (il furore nervoso e, talvolta, auto-distruttivo di Scorsese e la rarefatta trascendenza buddista), emerga un film profondamente coerente, dove l’armonia del buddismo fa un tutt’uno con l’equilibrio strutturale e linguistico di Scorsese. In Kundun la forma è tutto, non nel senso di un formalismo astratto che nella propria autocontemplazione fagocita ogni altro possibile significato, ma nel senso di una forma (quella buddista) che non ha soluzione di continuità tra i propri riti e la propria vita interiore e una forma cinematografica (quella che, nella sua fusione di stile e senso, fa di Scorsese l’autore più esemplare del nostro tempo) che incorpora in se stessa il significato complessivo dell’opera. Qui, il montaggio, le frequenti dissolvenze, le distorsioni dell’angolo di ripresa, i dolly, gli schermi che velano le immagini, sono tutti elementi chiave della narrazione di un percorso spirituale. Senza di essi, senza la loro millimetrica, a volte sconvolgente precisione e intensità, non c’è storia, non c’è Tenzin Gyatso, non c’è questo Tibet “dell’anima”, ricreato senza un cedimento al folclore. La religione che anima e amalgama Kundun è quella di una maturazione, dell’approdo all’autoconsapevolezza e dell’accettazione delle proprie “vocazioni”. In termini strettamente autobiografici, è la religione del cinema. «Quando sul set o al montaggio mi arrabbio, perché non si riesce a far funzionare qualcosa a dovere, quando viaggio tanto che non so neppure dove sto andando, e ogni giorno è in una certa maniera una “recita”, allora mi viene in mente che, presupponendo che ci sia un Dio, io sono nato per fare questo. Non so come dirlo senza suonare stupido, ma fare questo è come un atto di fede, o un atto di culto... Per me, anche Casinò era un atto religioso. Non posso fare nient’altro. E questa deve essere la ragione per cui sono ancora al mondo. Altrimenti, perché farlo? Con tutti i problemi che dà? Meglio andare a insegnare, o qualcos’altro. Ho fatto abbastanza film. Perché continuare? Perché evidentemente è quello che devo fare. Qualcuno può dire che ho fatto bene o che ho fatto male, che sono migliorato o peggiorato con gli anni. Ma, anche se sono peggiorato, non posso fare altrimenti, devo continuare a fare. Così, l’unica cosa che mi fa andare avanti è sapere che lavorare equivale a pregare».
Gavin Smith, The Art of Vision, intervista a Martin Scorsese, Film Comment n. 1, 1998

Critica (2):La percezione di sé e dell’esterno e, con il passare del tempo, di sé in rapporto all’esterno diventa il punto di contatto tra un furibondo cineasta cattolico cinquantenne e uno ieratico capo spirituale buddista, seguito tra i due e i ventiquattro anni, dalla sua “scoperta” in un villaggio tibetano ai confini con la Cina alla sua fuga in India, nel 1959. Kundun non è un esemplare di “Tibetan Chic” o di “Hollywood Goes Tibet”, come hanno scritto alcuni giornali americani, facendo inferocire Scorsese. Anche se il progetto non nasce da lui, ma da Melissa Mathison (con la quale Scorsese ha lavorato alla sceneggiatura per due anni), l’autore non bara: non si spaccia per un esperto di storia del Tibet e non “flirta” con tentazioni di conversione al buddismo. “Sono interessato al buddismo a causa del comportamento della gente; sono interessato alla gente che si comporta con gentilezza e tolleranza; e con questo film mi sono sentito più libero che non con L’ultima tentazione di Cristo di esplorare queste idee di gentilezza, tolleranza e compassione”. Il che all’apparenza potrebbe sembrare in contraddizione con le “passioni” sanguigne e urlate che hanno spesso dilaniato il cinema di Scorsese; ma, in realtà, la sconfitta esteriore (secondo canoni occidentali) e la vittoria interiore di Tenzin Gyatso non è poi così distante dalla malinconica consapevolezza con cui Newland Archer, l’uomo che sa di “aver sprecato il fiore della vita” e si allontana nel tramonto parigino senza rivedere il suo antico amore, o da quella con cui, molti anni dopo le ultime stragi, il sopravvissuto Sam Rothstein vive la sua vita anonima di contabile. È l’occhio sul passato che conta (e l’ossessione di quell’io narrante, che ormai è diventato quasi una costante del cinema di Scorsese); e la consapevolezza che, come dice il Dalai Lama adulto, “È come l’esperienza di un sogno, qualunque cosa mi reca piacere diverrà un ricordo, quello che è passato non si vedrà mai più, quello che deve accadere non accadrà di nuovo”, o, come ha sottolineato l’autore, l’idea che questo preciso momento è già accaduto, è già consegnato al passato. Il tempo come tutto unico della memoria, un groviglio da dipanare per ricostruire l’esperienza dell’uomo e della storia.
Emanuela Martini, Cineforum n. 373, aprile 1998

Critica (3):

Critica (4):
Martin Scorsese
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