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Maledetto imbroglio (Un)


Regia:Germi Pietro

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana" di Carlo Emilio Gadda; sceneggiatura: Ennio De Concini, Pietro Germi, Alfredo Giannetti; fotografia: Leonida Barboni; musiche: Carlo Rustichelli; montaggio: Roberto Cinquini; scenografia: Carlo Egidi; interpreti: Pietro Germi (commissario Ingravallo), Eleonora Rossi Drago (Liliana Banducci), Claudia Cardinale (Assuntina Jacovacci), Franco Fabrizi (Valdarena, il cugino), Cristina Gaioni (Virginia, la matta), , Claudio Gora (Remo Banducci), Saro Urzì (Maresciallo Saro), Gianni Musy (primo ladro, Retalli), Toni Ucci (secondo ladro, Er Patata), Nino Castelnuovo (Diomede) Peppino De Martino (Il Dott. Fumi); produzione. Giuseppe Amato per Riama Film; distribuzione; Cineteca dell'Aquila; origine: Italia, 1959; durata: 110'.

Trama:In un appartamento di una vecchia casa signorile, nel centro di Roma, viene perpetrato un furto: il commissario Ingravallo, della squadra mobile, ha appena iniziato le indagini per scoprirne l'autore, quando nella stessa casa, nell'appartamento contiguo, viene commesso un assassinio. L'uccisa è Liliana Banducci, una donna ancor giovane e piacente, timida e riservata. Il nuovo delitto costringe il commissario ad estendere le indagini, che da principio procedono a tentoni, giacchè gli elementi che richiamano l'attenzione dell'indagatore sono slegati e frammentari. Si tratta soprattutto delle persone più vicine alla vittima: un cugino, sedicente medico, che l'uccisa riforniva periodicamente di denaro; il di lei marito, uomo taciturno e schivo; una servetta imbarazzata e sconcertante. I sospetti del commissario si accentrano sui due primi personaggi e le sue indagini lo portano a scoprire che entrambi mantengono dei rapporti con Virginia, una ragazza che, a suo tempo, prestò servizio in casa di Liliana. Attraverso pazienti indagini, alternate con astuti tranelli, il commissario s'avvicina, a poco a poco, alla verità, che appare in piena luce quando il ritrovamento di alcuni gioielli rubati permette di collegare il furto e l'assassinio. Il ladro e l'assassino sono la stessa persona: si tratta cioè del fidanzato di Assuntina, l'ultima servetta di Liliana. Costui, spinto da urgente bisogno di denaro, si è introdotto dapprima in casa del comm. Anzaloni, poi nel contiguo appartamento di Liliana Banducci. Scoperto da quest'ultima, ha perduto la testa e l'ha uccisa. Allorchè Ingravallo si reca ad arrestare l'assassino, che nel frattempo ha sposato Assuntina, permette che la donna non sia coinvolta nella triste vicenda: ella ha avuto solo il torto di nascondere la verità, della quale era venuta a conoscenza, per difendere l'uomo amato.

Critica (1):Occorre subito notare che alla fine, a differenza del libro, come esige un giallo classico, un colpevole verrà trovato. Ma non è questa la sola differenza col Pasticciaccio, radicalmente rielaborato nella sceneggiatura ad opera del regista stesso, di Alfredo Giannetti ed Ennio de Concini. Innanzi tutto l’azione è spostata dall’epoca fascista a quella dell’immediato dopoguerra (anche se una specie di citazione-omaggio si ha quando nel corso d’una perquisizione, di fronte a un Ingravallo impassibile, compare un ritratto di Mussolini, di cui il marito si rivela un nostalgico) e inquadra la storia tra i primi segni della crisi di valori della società italiana agli albori degli anni Sessanta. Ne risulta nelle ambientazioni un accentuato carattere popolaresco, un clima neorealista, specie nelle sequenze corali, o quando gli agenti indagano tra borgate e piccola malavita, o nelle ripicche e ingenuità dei giovani col loro modo di corteggiarsi, da "poveri ma belli".
Altro tratto saliente della presa di distanza dalla matrice letteraria e dell’autonomia dello specifico filmico è la rinuncia al plurilinguismo, ricondotto a una registrazione degli usi linguistici e dialettali dei parlanti, con prevalenza di un italiano basso o medio, con cadenze e idiomatismi del romanesco; ma la babele del testo di partenza è lontana. Le rutilanti descrizioni gaddiane sono riportate all’osservazione della quotidianità; il dramma non ha soluzione di continuità rispetto alla commedia (esibizione della protesi dentaria, il ladro ciclista e i suoi complici…), che mette in luce una società pervasa dalla fallacità umana, da un’amoralità diffusa, da storie di adulterio al limite della pochade, dall’opacità delle coscienze. Secondo le regole del noir, i personaggi hanno tutti qualcosa da nascondere, comprese le vittime (sia il derubato che la signora Liliana). Lo sguardo del regista è più duro e amaro e si perde quell’allusività sfuggente, quell’indeterminatezza di ruoli che avevano, per es, personaggi come il Valdarena o ‘le ragazze’ presenti nel romanzo. Cambia esteriormente anche la figura chiave di Ingravallo: somaticamente è arduo sovrapporre Pietro Germi, dal volto affilato e dai toni bruschi, dalla piega amara della bocca e con gli occhiali neri che coprono lo sguardo, al quasi tozzo e
malinconico meridionale trentaquatrenne protagonista del romanzo. Ma nell’interpretazione del regista-attore c’è un’aderenza morale e ideologica che traduce l’insofferenza, quasi la nausea per il male, che porta a non infierire né a giudicare, ma nemmeno ad adeguarsi, a non accettare il sopruso ,la slealtà, o l’ipocrisia, che suona come offesa all’intelligenza. Ingravallo-Germi osserva innocenti e colpevoli muoversi nello stesso scenario (il rispettabile condominio), mescolarsi nella quotidianità; le ombre del sospetto si allungano sui personaggi più deboli e popolari, ma il giudizio morale del regista e del commissario si appunta con sguardo critico e disincantato sui personaggi più corrotti sotto le apparenze per bene, mentre esprime simpatia per chi è coinvolto nel delitto pur senza colpa diretta, come Assuntina.
Nel film, a differenza del romanzo, il rigetto del moralismo e del finto perbenismo, da parte del commissario, più che con le battute, è espresso con lo sguardo e con le pause. L’umanità e la comprensione delle attenuanti non va disgiunta dal rigore e dalla pertinacia nell’indagine. L’insofferenza per formalismi, lungaggini e burocrazia accomuna i due. Infine la “mezza sigheretta regolarmente spenta” che serve a Ingravallo per favorire la riflessione o placare il nervosismo nel film diventa il mezzo toscano che Germi mordicchia e accende continuamente davanti a colleghi, testimoni e inquisiti. Tutte le divergenze fra testo e film segnalate non stridono, ma portano a una sostanziale concordanza di fondo. Se Germi, in veste di regista, si scostava assai dal testo, vantandosi d'aver girato "il primo poliziesco italiano", Gadda apprezzò sia lo spessore morale e sociale, che i requisiti per piacere ad un vasto pubblico che favorirono il successo dell’opera, uno degli esempi più “infedeli “ e riusciti di trasposizione filmica da un testo letterario. L’impegno morale di Germi si innesta felicemente sullo scetticismo di Gadda. Se per lo scrittore l’inconoscibilità del mondo portava necessariamente verso un finale aperto, la conclusione che Germi adotta, non è certo consolatoria, alla maniera del noir americano, in cui lo spettatore è portato a identificarsi più con il colpevole, oppresso dalla società, o con l’individualismo anarcoide dell’investigatore privato alla Marlowe, che con vittime e/o poliziotti (avidi e potenti gli uni, violenti e corrotti gli altri). Trovare il bandolo della matassa (il garbuglio gaddiano) non significa la vittoria dell’ordine e della giustizia, poiché anche il colpevole è vittima del male del mondo.
Vincenzo De Caprio, Progetto letteratura, Einaudi scuola , Milano 2004

Critica (2):Il romanzo di Gadda, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, non era certo un “giallo”: c’era sì un omicidio e c’era una lunga e minuziosa ricerca del colpevole da parte della polizia, ma un simile spunto serviva a Gadda soprattutto per disegnarci una pittoresca galleria di personaggi tipici della Roma agli albori del fascismo, tutti parlanti un italiano o un romanesco che all’autore era sempre di pretesto per una gustosa filologia e tutti adatti, in genere, alle più ricche e colorite indagini psicologiche. L’intrigo poliziesco e la scoperta del colpevole, anzi, erano così poco importanti nel romanzo che alla fine una vera e propria risposta al “pasticciaccio” non veniva data chiaramente e la si lasciava, semmai, all’intuizione del lettore che proprio tenesse ad averne una. Non così nel film di oggi che Pietro Germi ha liberamente tratto dal testo di Gadda: c’è lo stesso delitto di cui ci parla il romanzo (l’uccisione, cioè, di una giovane donna durante l’assenza del marito), ci sono, più o meno, gli stessi fondamentali personaggi (anche se con psicologie non di rado mutate e spostate alla mentalità odierna, anziché a quella di trent’anni fa), ma quello che conta, qui, non è particolarmente la scoperta di un ambiente o di una serie di caratteri quanto piuttosto – secondo gli schemi classici del “giallo” – l’affannosa ricerca del colpevole che il regista, con innegabile abilità, fa in modo di rendere il più possibile difficile lasciando via via cadere i maggiori indizi su un nutrito gruppo di differenti personaggi. Possiamo rimpiangere che si sia rinunciato a certe intenzioni dell’autore letterario, ma dobbiamo onestamente ammettere che sul piano del “giallo” (sia pure di un “giallo all’italiana”) non si poteva fare di meglio: l’azione, infatti è costruita con cura, il groviglio di personaggi secondari che gravano attorno al delitto è dipanato con sapienza e sempre in funzione di gettare la polvere negli occhi allo spettatore, certi evidenti riferimenti a un “caso” piuttosto clamoroso, non ancora passato in giudicato, intervengono con garbo a rendere anche più vivo e interessante l’intreccio e, alla fine, il colpo di scena conclusivo è preparato con meticolosa precisione e, quando esplode, si fa ammirare non soltanto per la sua vivacità narrativa, ma anche per lo stile asciutto, scabro eppure quasi appassionato con cui Germi ha voluto drammaticamente risolverlo. Si aggiunga che, pur rinunciando ad approfondire il mondo di Gadda, la regia che, andando alla ricerca del colpevole, tendeva anche a mettere in evidenza tutto un giro di ben diverse e forse altrettanto gravi colpevolezze, ha spesso guardato con occhio attento a cornici e caratteri, tracciandoci non di rado un quadro della Roma moderna, di certa malavita e di certi ambienti della polizia che, anche quando svela sfumature ironiche, non mette mai da parte né l’umanità più cordiale, né l’intuizione psicologica più sensibile e aperta. Un film, perciò, degno di molta attenzione cui, qua e là, si potrebbe rimproverare soltanto una certa superficialità di situazioni e, in alcuni momenti, un eccesso di “costruzione” nel meccanismo poliziesco. Da lodare senza riserve l’interpretazione: Germi è il commissario che conduce l’inchiesta, con un misto di astuzia, di malinconia, di rassegnazione; gli altri sono Franco Fabrizi, intelligentemente a suo agio nella difficile parte del cugino dell’uccisa, Claudio Gora, nelle ambigue vesti del marito, Eleonora Rossi Drago, che ha disegnato con garbo fermo e dignitoso il personaggio della vittima.
Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 11/12/1959

Critica (3):L'azione del Maledetto imbroglio prende il via da un furto verificatosi in un appartamento di un grande caseggiato nel centro di Roma. Un affare di poco conto, per le cui indagini viene incaricato il commissario Ingravallo. Tutto si risolverebbe secondo le normale routine se subito dopo, nell'appartamento atti
guo a quello del furto, non fosse commesso un assassinio: la vittima è la signora Liliana Banducci, una donna ancora giovane e piacente. Le ricerche di Ingravallo proseguono sulla base di indizi molto labili che gli rendono faticosa la raccolta di elementi che facciano luce sui due casi, fra i quali si è stabilito un evidente legame. I sospetti maggiori si appuntano su tre persone: il cugino di Liliana, un giovane che si spaccia per medico ma che è in realtà uomo dai molti e poco chiari mestieri (di tanto in tanto aveva l'abitudine di attingere denaro dalla vittima); il marito della donna uccisa, un uomo taciturno e dai modi ambiguamente sfuggenti; infine una servetta che Liliana amava come una figlia. I primi due sono i più indiziati da Ingravallo, il quale, man mano che indaga sul loro passato viene a scoprire che ambedue si dividevano i favori di Virginia, una ragazza che tempo prima aveva prestato servizio in casa della vittima. Attraverso pazienti ricerche la verità verrà fuori: il ritrovamento di alcuni gioielli rubati confermerà la già sospettata esistenza di un rapporto fra il furto e l'omicidio. [...1 Adempiuto al suo obbligo e rispettate le regole del gioco, Germi può dedicarsi a ciò che del Maledetto imbroglio costituisce la vera essenza, il perno narrativo: la contrapposizione fra legalità e illegalità (forse sarebbe troppo dire mondo del crimine) diventa qui l'antitesi fra innocenza e corruzione, fra chi ha preservato la propria integrità anche al prezzo della solitudine e chi si è immerso nella limacciosa corrente della vita. Se si volessero indicare precedenti analoghi in campo cinematografico si potrebbe pensare ad uno dei migliori film di Georges Clouzot, Quai del orfèvres (Legittima difesa, 1947), anch'esso strutturato su un personaggio, il commissario di polizia, che osserva con disperata
impassibilità e con dissimulato disprezzo la corruzione del mondo.
Nel Maledetto imbroglio la diversità di ingravallo, il suo isolamento, che lo oppongono alla folta schiera di rispettabili borghese e di meno rispettabili ladruncoli ed emarginati, appartengono al suo naturale carattere, alla sua naturale ritrosia - che Germi sottolinea con la suo recitazione tutta in sottotoni - ma sono soprattutto il risultato di una scelta di vita. "Non sono dottore", ripete infastidito a tutti quelli che lo chiamano in tal modo, quasi a mettere in chiaro certa sua insensibilità alle facili lusinghe del mondo. La sua è la "pulizia" morale di chi non vuole macchiarsi, di chi intende giudicare senza compromettersi. Perciò la sua indulgenza va soltanto verso gli incolpevoli o i traviati da circostanze più grandi di loro: la decisione di non immischiare Assuntina nasce da questa naturale simpatia. Mentre la sua ripulsa verso coloro che nascondono il vizio dietro la rispettabilità e il decoro è altrettanto netta: si pensi all'antipatia che suscitano il cugino e il marito di Liliana o il malcelato ribrezzo con cui Ingravallo ritrae la mano dopo aver stretto quella dell'anziano omosessuale, rassicurato nel suo timore di compromettersi con la pubblicità che il caso Banducci, nel quale è stato marginalmente coinvolto, ha suscitato. L'ingravallo gaddiano perciò ha solo innescato il moralismo di Germi. La sua superiore umanità, espressa in tollerante bonomia, la sua disponibilità a comprendere il dolore, ma anche i vizi dell'uomo lo allontanano dal ruolo di "giudice", che il poliziotto del film accetta per un'altrettanto naturale inclinazione. Scompare l'ironia che conferisce alla pagina gaddiana il suo sapore in
confondibile e al suo posto si accampa una ben dissimulata misantropia. Questa riduzione del personaggio nella misura di un moralismo risentito è il sintomo di un sempre più avvertito disagio nei confronti di una realtà sociale che presentava inarrestabili segni di disgregazione: il disordine di una città dal volto infido e aggressivo, la minaccia proveniente da un'umanità sbandata e costretto a vivere ai confini della legge, che avevano inferto una profonda, immedicabile ferita al mondo cui Germi si sentiva profondamente legato. "In Gadda sussiste la certezza di una realtà oggettiva che può essere mimetizzata e rappresentata... a questa certezza si sovrappone una effettiva incertezza, il senso lirico della vanità e del nulla, di tipo religioso e storico che appartiene alla cultura in cui Gadda per coazione e per reazione è vissuto e ha operato". In Germi questa incertezza nasce da una mancata sintonia con il mondo, che pure in questo film egli descrive con una vivacità e una precisione di dettagli che gli derivano dal suo collaudato mestiere. Con pochi, essenziali tratti Un maledetto imbroglio suggerisce il brulichio nascosto dietro le apparenze: gesti appena accennati, sguardi sfuggenti, frasi reticenti aprono squarci insospettati, mettono a nudo il finto perbenismo, svelano traffici loschi e innominabili. II teatro di via Merulana diventa il palcoscenico nel quale si annida il vizio in tutte le sue espressioni: Germi ne osserva l'espandersi con attonito e insieme incuriosito distacco.
Vito Attolini, Il cinema di Pietro Germi, Elle Edizioni, 1986

Critica (4):
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