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Muro (Il) - Mur


Regia:Bitton Simone

Cast e credits:
Soggetto
: Simone Bitton; fotografia: Jacques Bouquin; musiche: Rabih Abu-Khalil; montaggio: Jean-Michel Perez, Catherine Poitevin-Meyer; produzione: Thierry Lenouvel per Cine–Sud Promotion – Arna Productions – Cnc – Tv5; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia – Israele, 2004; durata: 100’.

Trama:Documentario sul conflitto israelo-palestinese, incentrato sul muro che Israele costruisce intorno ai territori palestinesi. I dialoghi e i momenti di vita quotidiana di un ebreo e di un arabo i cui sogni e aspirazioni sono minacciati dal frastuono delle ruspe e dei bulldozer.

Critica (1):Dalla locandina, Il muro darebbe l’impressione di essere uno di quei film futuristici a low-cost che ricordano tanto lavori come Codice 46, di Winterbottom, o Solaris di Soderbergh. Ed invece è tutto vero. Il muro della locandina, così algido, imponente, irreale, si ripropone in modo devastante nella realtà. E per di più in una realtà tanto complessa e martoriata come quella di Israele, della Terra Santa. Mettendo subito in chiaro le cose, diciamo che Il muro (semplicemente Mur nel titolo originale) è un documentario. Un documentario, tuttavia, lontano anni luce dallo stile aggressivo, minimalista, tutto incentrato e costruito sul montaggio di quella tipologia documentaristica alla quale ci ha abituati Michael Moore. E la forma visiva trae le sue radici dal sentimento della regista, dalle emozioni e dalle sensazioni di un vissuto. “Il muro è politico, perché tutto è politica, ma non parla di politica. Parla di me, di noi”. Questo quel che dice Simone Bitton, marocchina di origine e residenza ebraico-israeliana, sul suo lavoro. E la Bitton, al suo sedicesimo documentario, ma alla sua prima opera prodotta per il cinema, traduce la sua visione di questo paese, di questo muro, in immagine. Il muro, ce lo dice il generale Yaron, del Ministero della Difesa israeliano, è quel serpentone di cemento armato, torrette e filo spinato che, nelle intenzioni del governo israeliano, dovrebbe arginare in modo decisivo il fenomeno del terrorismo. Ma la regista ci introduce, con lunghe inquadrature fisse, con l’unione delle immagini con il sonoro insieme diegetico ed extra-diegetico, ad aprire lo sguardo verso le molteplici implicazioni di un “mostro” architettonico del genere. (...) La visione della Bitton è serena, pacata. A differenza di altri, fa lavorare le immagini, la sola e disarmate verità del reale, descrivendoci una terra che continua a vivere, a dover vivere, nonostante si trovi ad imbattersi con muri, culturali e mentali prima ancora che fisici.
Pietro Salvatori, FilmUP

Critica (2):«Ho filmato il muro perché fa parte di me, riguarda ciò che sento e quello che vedo». Nelle note al film della regista, Simone Bitton, marocchina nata a Rabat, dove è cresciuta muovendosi tra Gerusalemme e Parigi, passaporto con doppia nazionalità, francese e israeliana, dunque cultura e storia della diaspora di apertura e contaminazione, leggiamo: «non ho fatto questo film per convincere chi ha opinioni diverse dalle mie sul conflitto tra israeliani e palestinesi. Volevo dividere con lui ciò che sento, raccontare ciò che vedo, perché il muro che ho filmato fa parte di me come l’orizzonte mentale e umano dei personaggi». Mur è infatti l’immagine a più punti di vista della vergognosa barriera che Sharon continua a costruire delimitando un enorme ghetto in cui sono chiuse migliaia di persone. Nelle immagini viaggiamo lungo il muro e i cantieri sempre aperti a distanza ravvicinata, una presenza fortissima, dolorosa nella sua implacabilità. Il muro è un segno che modifica paesaggio fisico e soprattutto mentale, che afferma violenza, nega ogni contatto, pratica la progressiva e radicale sparizione di chi sta, necessariamente, dall’altra parte. Chi non ha diritto di uscire, che dietro a quel muro dove appunto si fa fatica a arrivare accumula miseria, frustrazione, rabbia. Il muro determina il primo piano di una parte, gli israeliani, coloro che lo costruiscono, che lo agiscono e che per questo sono liberi di muoversi, controllano la loro immagine. Gli altri invece l’immagine sembrano perderla nel quotidiano, nelle piccole storie, al di là delle rappresentazioni più eclatanti – il kamikaze – nella vita. «Riprendimi, portami lontano da qui», grida un ragazzo palestinese alla macchina da presa. Contro le certezze politiche e militari – l’intervista a Amos Yaron, responsabile per il ministero della difesa che non vediamo quasi in viso, contiene affermazioni sulla necessità del muro che oltrepassano il paradosso – tra chi vive ci sono dubbi. Cosa significa questo muro? Prima di tutto umiliazione, la stessa che ai checkpoint subiscono i palestinesi continuamente mortificati. Poi negazione dichiarata di ogni possibile rapporto. Un uomo, israeliano, approfitta del documentario per parlare a un amico palestinese dell’altra parte: «c’è il telefono è vero ma vedersi, bere un bicchiere è molto meglio». Dunque? Lungo il muro si sovrappongono voci diverse, canti sacri in arabo e in ebraico, parole che cercano di spezzare il fracasso dei bulldozer. Quel muro grigio sembra invece negare ogni presente e ogni futuro.
Il film di Simone Bitton – in questi giorni al Sundance – ce lo mostra come non lo avevamo mai visto, contestualizzato, radicato nel vissuto, cosa che del resto investe tutto questo conflitto come altre guerre embedded anche senza richiesta ufficiale, composte in quelle immagini che poco raccontano – forse volutamente – e nel loro replicarsi, quasi un nuovo mantra formato digitale, finiscono col produrre assuefazione. Di per sé infatti le immagini di Mur forse non le vedremmo mai in un tg. Ma la forza sta proprio qui. Ci dicono cosa è la disperazione imposta, che peso abbia vivere un perenne stato di occupazione e di apartheid dichiarati come umana necessità, essere privati dell’orizzonte, del presente e della Storia.
Cristina Piccino, il manifesto, 28/1/2005

Critica (3):

Critica (4):
Simone Bitton
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