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Nostos il ritorno


Regia:Piavoli Franco

Cast e credits:
Soggetto, sceneggiatura, fotografia, montaggio, suono: Franco Piavoli; collaborazione artistica: Neria Poli; collaborazione alla scenografia: Giancarlo Aymerich; costumi: Ferruccio Bolognesi; musiche originali: Luca Tessadrelli, Giuseppe Mazzuca; musica: Berio, Borodin, Maros, Perotino, Monteverdi; montaggio del suono: Giuliana Zamariola; assistenti alla regia: Giuseppe Marcoli, Carlo Malachini; coreografie: Laboratorio Teatro Settimo; interpreti: Luigi Mezzanotte, Branca De Camargo, Paola Agosti, Giuseppe Marcoli, Alex Carozzo, Mariella Fabbris; produzione: Franco Piavoli, Giannandrea Pecorelli, per Zefiro Film e Immaginazione; distribuzione: Mikado; origine: Italia, 1989; durata: 87’.

Trama:Personale rivisitazione del mito di Ulisse. “Nostos” esprime le nostre paure, i rimorsi, le disperazioni, ma anche le illusioni, gli incanti e soprattutto il bisogno di ripararsi nella casa della memoria e degli affetti più cari.

Critica (1):Io, Nezhualcóyotl, chiedo: È forse vero che si vive con le radici nella terra? Non per sempre nella terra: Soltanto un po’ qui, Seppure sia di giada si spezza, Seppure sia d’oro si rompe, Seppure sia di piume di quetzal si lacera. Non per sempre nella terra: Soltanto un po’ qui. desideravo che i cerchi non finissero, non finissero mai, consapevole, tuttavia, che ogni pietra è momentanea, ogni minuto fugace, ogni gioia passeggera, e che poi non rimane memoria sull’acqua. Manuel Scorza, La danza immobile
C’è un “cinema segreto”. Un “pianeta azzurro” del cinema italiano che obbedisce solo a ritmi ed avvicendamenti primordiali, che sgorga dal profondo delle cose e vi si mimetizza, vi scava, negli anni, una nicchia e vi si chiude, forse, per sempre, remota testimonianza di un’altra civiltà, microscopica, microcosmica, come un fossile del paleolitico. Non è una riserva, né un’area protetta cui si possa accedere in visite guidate. È, piuttosto, una costa barbara, selvaggia, preda degli elementi, acqua, fuoco, aria e terra, lussureggiante e pluviale, dove tutto si confonde nell’insieme, ma dove ogni parte, presa a sé, risulta inconfondibile e diversa dal tutto. Basta saper guardare. Ed è un cinema delle viscere, incontaminato ed innocente che, spesso, non conosce verbo, ma soltanto suono o gesto o delirio, ed il cui intimo ordine si misura unicamente sul divenire lento, impassibile, delle odissee umane, delle fasi lunari, delle stagioni atmosferiche. Fuori da ogni catalogazione preconcetta, da ogni possibilità di giudizio, se non etologico, in qualche modo al di là del bene e del male, del bello e del brutto. Nei confronti del quale si può assumere soltanto, in effetti, un’etica, un “costume”: quelli del collezionista di farfalle, dell’entomologo, del cercatore d’oro, dell’esploratore polare, di chi fruga nei recessi del sottosuolo, incurante di polvere e detriti, per cavarne ossa preistoriche o sarcofaghi egizi. Perché è da qui, da questo ventre amazzonico,incivile ed incolto, ostile ed ostico, scomodo e scontroso, che prendono forma opere tanto diverse tra loro, quanto accomunate dallo stesso spirito forastico, animate dalle stesse urla di ribellione, trapassate dagli stessi silenzi di pànica meditazione, come L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria, deambulante calvario documentale di un povero Cristo condotto al Golgota attraverso una serie infinita di esasperanti stazioni metropolitane ed infine crocifisso ai legni del proprio stesso astratto furore sociale; o La parola segreta di Stelio Fiorenza, figura allegorica delle circolarità esistenziale, dove fughe, tradimenti, esseri braccati e persecutori, coro e protagonisti, scambiano, nel rondò continuo delle vite parallele di ognuno e della Storia, i propri ruoli e le proprie mansioni, senza soluzione di continuità. Ma, soprattutto, ed innanzitutto, come Nostos/il ritorno di Franco Piavoli, sul quale il lettore ci scuserà di essere approdati solo ora, a causa di un proemio che ritenevamo doveroso, per riuscire ad avvicinarsi all’ “oggetto” partendo, come lo stesso Piavoli c’insegna, dalle sue fonde radici. Egli può essere considerato, infatti, a ragione, il poeta massimo, ed il mèntore più intransigente, di quel cinema, il primo interlocutore dell’etica. Il suo universo creativo è davvero (e non soltanto per semplice e, d’altronde, premeditata omonimia con il titolo del film che l’ha visto esordire), quel ‘pianeta azzurro’ dove esistono e pulsano solo le leggi della natura (animale, vegetale, mistica), dove ogni evento ha cadenza, e memoria, millenaria e da nient’altro che dalla propria entità più intrinseca, da ciò che è e basta, trae l’ineffabile e ardua attitudine a trasfigurarsi in qualcosa di cosmico, di metafisico: il senso del tempo, delle cose, dell’esistenza, dell’appartenenza ad un’armonia inappellabile eppure immanente, benchè inconoscibile. È davvero quel “segreto” che bisogna portare alla luce, gelosamente conservato in qualche cuore di tenebra o, al contrario, generosamente sparso a piene mani sopra campagne, fiumi, mari, illuminati dai raggi del sole. Egli lo persegue in ogni fotogramma, in ogni scena, in ogni sequenza, con la pervicacia e l’afflato del narratore di poemi, del cantore omerico. Come loro, racconta le medesime avventure della carne e dell’anima, le medesime traversie dell’uomo, i medesimi interventi, benefici o avversi, del Cielo, nelle sue attività quotidiane, nei suoi gesti sempre uguali, antichi, secolari. Come loro, racconta miti e nascite, o inarrestabili tramonti, di culture, di nazioni della coscienza. Era quasi inevitabile, quindi, che tale itinerario lo conducesse ai lidi salmastri dell’Eroe classico. La danza immobile Così s’annuncia Nostos: una barca alla deriva, con la chiglia mollemente carezzata dalle onde schiumose e la vela appena mossa da un leggero alito di vento. I suoi passeggeri, adagiati sul fondo, le membra inerti, dormono. In un angolo una schiera di argentei elmi, emblemi di guerra, riverberano sinistramente. A tale, inequivocabile, principio (il “campione” che torna) – Ulisse e i suoi compagni? Giasone e gli Argonauti? O ancora altri guerrieri provenienti da altre latitudini e saccheggi? – dopo aver compiuto l’impresa), si sovrappone l’immagine di un cerchio che rotola giù dal declivio d’una collina, rincorso da un fanciullo e, subito, fagocitato dentro l’enorme ed infuocato globo solare. Un sogno? Una visione? Un ricordo? Un presentimento? Cerchio e fanciullo, gioco ed infanzia, scandiranno, ad intervalli regolari come battute di un solfeggio, l’intero movimento del film, donandogli il suo equilibrio, la sua misura ideale, suprema. Forma ed incanto, linea ed evocazione, geometria e chimera, riconducibili appunto a quelle due componenti iniziali, rappresentano la strumentazione essenziale attraverso cui Piavoli orchestra e regola il proprio materiale visivo e sonoro. La forma, la linea, la geometria delle stratificazioni geologiche negli abissi di una caverna, si tramutano nelle voci di una sibilla maternale arbitra del Fato; quelle di un grande albero frondoso, nel miraggio d’aver rivelata la via per il ritorno in Patria; quelle, ancora, dell’acqua che scolpisce la superficie marina d’increspature dorate o di trasparenti, dolci, volute, nell’incantesimo di un paradiso terrestre dove regna l’oblio; quelle del trapezio finale attraverso la cui volta “Nostos” dovrà passare, per riemergere dal proprio mitico viaggio, nell’illusione d’essere arrivato; ed infine quelle, architettoniche, della Casa, nella rievocazione di un tempo immobile ed immutabile entro cui i vecchi genitori attendono il figlio seduti sulla soglia. Ma persino la geometria delle parole diventa suono informe, musicalità senza alcun significato logico se non quello di trasmettere emozioni, sentimenti, passioni. Perchè Nostos stesso, probabilmente, è (anche) un’immensa metafora, un simbolo (quindi una favola, un incanto, un’evocazione, una chimera) delle odissee umane regolate dalle fasi lunari e dalle stagioni atmosferiche. E l’Eroe non è Ulisse, né Giasone, né altri, ma soltanto il fluire degli stati naturali, l’avvicendarsi degli affetti, dei desideri e dei bisogni elementari, come, appunto, “l’andare errando”, il conquistare nuove frontiere, nuovi orizzonti, portando anche, spesso, morte e distruzione, il mantenere, comunque e contro lo stesso anelito all’“andar vagando”, saldi legami con i luoghi e le persone della propria storia e del proprio passato. In realtà, è tutto il cinema di Piavoli a farsi “creato”, memoria, poesia epica del “creato”: per lui è più importante uno stormire di fronde, un cangiare repentino di colori, una tonalità della terra, un insetto mimetizzato tra fitti steli d’erba. Egli sa mutare tali piccoli fatti nella Storia, sa vedere anche là dove nessuno troverebbe niente d’interessante da vedere e registrare. Il suo è cinema ‘degli elementi’, terrigno eppure spirituale, panteista eppure soprannaturale, elementare, appunto, eppure filosofico, ed è cinema di elementi primari, quelli che compongono il globo terrestre, ma anche le galassie, così come l’animo umano. Tutto insieme, regolato come una danza, più popolare e più diretta di una sinfonia (cui Piavoli ama richiamarsi), la danza (apparentemente) immobile della Natura, dove «Seppure sia di giada si spezza, / Seppure sia d’oro si rompe, / Seppure sia di piume di quetzal si lacera» e dove «ogni pietra è momentanea, ogni minuto fugace, ogni gioia passeggera»,la Natura consapevole che, poi, non rimarrà memoria sull’acqua. C’è da sperare che Nostos non rimanga inascoltato, c’è da sperare che la sua lezione socratica riesca ad instaurare il regno dell’etica, contro quello della “ragion pura”, del puro giudizio e dell’ecumenismo. Che il “pianeta azzurro”, che il “cinema segreto”, vengano finalmente scoperti e strappati al ruolo di pura e remota testimonianza fossile di un’altra civiltà.
Claver Salizzato, Cineforum n. 293, aprile 1990

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Franco Piavoli
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