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Sogno chiamato Florida (Un) - Florida Project (The )


Regia:Baker Sean

Cast e credits:Sceneggiatura: Sean Baker, Chris Bergoch; fotografia: Alexis Zabé; musiche: Matthew Hearon-Smith; montaggio: Sean Baker; scenografia: Stephonik Youth; costumi: Fernando A. Rodriguez; interpreti: Willem Dafoe (Bobby), Brooklynn Kimberly Prince (Moonee), Bria Vinaite (Halley), Valeria Cotto (Jancey), Christopher Rivera (Scooty), Caleb Landry Jones (Jack), Karren Karagulian (Narek); produzione: Sean Baker, Chris Bergoch, Shih-Ching Tsou, Andrew Duncan, Alex Saks, Kevin Chinoy, Francesca Silvestri per June Pictures, in associazione con Cre Films, Freestyle Pictures Company; distribuzione: Cinema Srl Di Valerio De Paolis; origine: Usa, 2017; durata: 111’.

Trama:La piccola Moonee ha 6 anni e un carattere difficile. Lasciata libera di scorrazzare nel Magic Castel Hotel alla periferia di Disney World, la bambina passa il suo tempo con un gruppo di monelli del posto e i suoi scherzi non sembrano preoccupare troppo la giovane madre Halley che, dovendosi barcamenare in una situazione precaria come gli altri abitanti del motel, è troppo concentrata su come riuscire ad andare avanti, più o meno onestamente. L'unico che cerca di tenere insieme le cose è Bobby, il manager del motel...

Critica (1):The Florida Project (presentato prima alla Quinzaine e poi allo scorso festival di Torino) ci dice che Sean Baker ha un modo inquadrare il mondo tutto suo. Non apparentabile necessariamente con le nuove estetiche del realismo 2.0, caratterizzate dal movimento febbricitante di sempre più piccoli e maneggevoli dispositivi di ripresa. Il suo sguardo sull’infanzia – mentre adulti logorati tirano avanti la carretta come possono, un gruppo di bambini dà vita a fantasiose marachelle in un’estate trascorsa tra i motel colorati di Orlando, prima dell’immancabile risvolto drammatico – rivela una freschezza e un’originalità preziose.
Un andare dentro le cose che non rinuncia però a una visione d’insieme e più meditata sul microcosmo umano che ruota attorno a Disneyland (da quello “ospitato” nelle variopinte strutture alberghiere ai turisti di passaggio, dalla working class da terzo settore agli strampalati senza dimora), colto con osservazioni precise, puntellate da una costruzione della scena frontale e sorprendentemente geometrica.
Perfetta la direzione dei piccoli attori (menzione speciale per Brooklynn Kimberly Prince), scelti quasi tutti attraverso Instagram, anche se a tenere le fila è un disperante manager di motel interpretato da un ottimo Willem Dafoe (candidato all’Oscar come miglior attore protagonista).
Dopo Prince of Broadway e Tangerine, un’altra bella conferma per Sean Baker, che tra un omaggio ad Hal Roach (e a i suoi Little Rascalas) e un approccio narrativo strampalato e quasi burtoniano (ma dentro una cornice più squallida e de-fiabizzata) torna a mescolare documentarismo e finzione come metodo d’indagine dello spazio urbano e dell’odierno tessuto sociale americano. Ne viene fuori un film ricco di contrasti, di entusiasmi infantili e di rassegnazioni quotidiane, di ingenua poesia e di consapevole prosa. Un ritratto tenero e puntuale del nuovo sottoproletariato e dei suoi figli, appena camuffato sotto una fragile corazza pop.
Gianluca Arnone, cinematografo.it, 21/3/2018

Critica (2):Il fashion district a Manhattan, la San Fernando Valley, Tinseltown L.A. e ora i sobborghi di Orlando. Un sogno chiamato Florida è un’altra fermata del viaggio di Sean Baker attraverso gli Stati Uniti, una specie di Great American Road Trip in chiave marginale. Seguire il cinema di questo regista è infatti un po’ come salire su un Megabus che fa fermate eccentriche. E questa volta si fa tappa a Orlando, Florida. Lo sguardo di Sean Baker (che qui abbandona l’IPhone con cui seguiva le trans protagoniste di Tangerine per un 35mm pieno e avvolgente) non si dirige però a Disneyland, la meta per eccellenza di chi va in quella parte degli States, ma gli dà le spalle per guardare al di là della strada.
E il controcampo del Disney World Resort, “il posto più felice sulla terra”, è un complesso di motel popolato da un’umanità liminale che vive la propria esistenza sulla soglia. Il motel è infatti un sistema sociale, un microcosmo in cui si vive ma non si abita, in cui si alberga, senza una reale separazione tra interno e esterno, tra rassicurante e spaventevole. Si vive sulla porta, continuamente aperta e chiusa, continuamente bussata. La relazione che si instaura tra l’al-di-qua e l’al-di-là del limite, come diceva Bachelard, è una lotta, un confronto doloroso e lacerante in cui identità e alienazione interagiscono vacillanti accarezzando la continua possibilità di trasformarsi nel proprio opposto. Ed è così che vivono i personaggi del film, aprendo e chiudendo le porte delle loro camere, locazioni temporanee divenute definitive per le storture dell’esistenza.
Ma Un sogno chiamato Florida prende tutto questo e ne fa una specie di fumetto sfavillante scegliendo di raccontare quell’umanità e quel sistema sociale attraverso la prospettiva dei bambini. Monelli selvaggi e indomabili, “piccole canaglie” irrefrenabili che vivono la loro infanzia senza regole e senza limiti, forse proprio perché il limite è la loro stessa esistenza. Scenette, quadretti, nessun evento ma un susseguirsi di momenti che suggeriscono come tutto vacilli sotto i rutilanti colori di quel mondo in ci si riconosce attraverso la sfumatura cromatica che hanno i muri del motel che si occupa. Moone, la protagonista del film, è la bambina dell’edificio viola, ed è la più vulcanica, la più ingestibile, la più disperata.
Tutto vacilla ma tutto si regge grazie a Bobby (un Willem Dafoe in forma smagliante come non mai, la misura nell’universo dell’eccesso). Nella palette di tipi umani che popolano il motel e l’orizzonte di Moone e dei suoi amici c’è infatti solo un punto di riferimento: Bobby, che diventa il cardine di tutta la struttura narrativa del film ma anche il fuoco di tutta quella realtà malferma. Bobby è infatti il manager del motel, ovvero la chiave di volta della relazione tra interno ed esterno, ed è il detentore dei segreti di ognuno. Mentre amministra il motel, gestisce anche quelli, sempre sul limite, sempre sulla soglia, sempre pronto a bussare alla porta. Bobby continuamente tirato verso l’interno ma al contempo estromesso, è il mediatore, l’unico a saper gestire la situazione, a proteggere i bambini, a fare in modo che, come l’albero preferito di Moone, continuino a crescere anche se piegati dalle intemperie.
Chiara Borroni, cineforum.it, 19/3/2018

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