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Miei giorni più belli (I) - Trois souvenirs de ma jeunesse


Regia:Desplechin Arnaud

Cast e credits:
Sceneggiatura: Arnaud Desplechin, Julie Peyr; fotografia: Irina Lubtchansky; musiche: Grégoire Hetzel; montaggio: Laurence Briaud; scenografia: Toma Baqueni; arredamento: Sebastien Delbarre; costumi: Nathalie Raoul; interpreti: Quentin Dolmaire (Paul Dédalus), Lou Roy-Lecollinet (Esther), Mathieu Amalric (Paul adulto), Dinara Droukarova (Irina), Cecile Garcia-Fogel (Jeanne Dédalus, la madre), Françoise Lebrun (Rose), Irina Vavilova (Sig.ra Sidorov), Olivier Rabourdin (Abel Dédalus, il padre), Elyot Milshtein (Marc Zylberberg), Pierre Andrau (Kovalki), Lily Taieb (Delphine Dédalus), Raphaël Cohen (Ivan Dédalus), Clémence Le Gall (Pénélope), Théo Fernandez (Bob), Anne Benoît (Louise, madre di Bob), Yassine Douighi (Medhi), Eve Doé-Bruce (Professor Béhanzin), Mélodie Richard (Gilberte), Éric Ruf (Kovalki adulto), Antoine Bui (Paul bambino), Ivy Dodds (Delphine bambina), Timon Michel (Ivan bambino); produzione: Why Not Productions, France 2 Cinéma; distribuzione: Bim; interpreti: Francia, 2014; durata: 120'.

Trama:Paul Daedalus lascia la sua terra, il Tagikistan. Con sé porterà i ricordi legati alla sua infanzia a Roubaix, alla follia della madre, al fratello Ivan, ai suoi sedici anni, a suo padre – vedovo inconsolabile –, al viaggio in URSS dove è stato costretto a vivere clandestinamente, ai suoi studi a Parigi e all'incontro con il Dottor Behanzin, da cui è nata la passione per l'antropologia e la filosofia. Ma soprattutto, Paul ricorda Esther, l'amore della sua vita...

Critica (1):Dopo il viaggio psicoanalitico e antropologico nel Kansas di Jimmy P. (2013), Arnaud Desplechin ritorna alla nativa Roubaix e all'alter ego del suo terzo film, il personaggio dal nome joyciano di Paul Dédalus di Comment je me suis disputé (ma mia sexuelle) (1996), poi riapparso, in una tormentata variante adolescenziale, nel successivo Racconto di Natale (2008). Ma Trois souvenirs de ma jeunesse (un po' banalmente ribattezzato in Italia I miei giorni più belli) racconta soltanto in modo accessorio gli eventi successivi al film di vent'anni fa, per privilegiare, invece, la narrazione del passato: infanzia (Enfance), adolescenza (Russie) e iniziazione all'età adulta (Esther), tre frammenti dalla durata deliberatamente disomogenea - molto breve il primo; un mediometraggio il secondo e un lungometraggio di un'ora e mezza il terzo, che costituisce quindi il vero corpo narrativo del film.
Tutti e tre sono incastonati nel presente: Dédalus – che ha nuovamente il volto inquieto, malinconico e volpino di Mathieu Amalric 0 dopo quasi vent'anni (non a caso, il tempo trascorso da Comment je me suis disputé) sta per interrompere il nomadismo che l'ha spinto fino a Duchanbé, in Tagikistan, dove nelle prime sequenze lo vediamo abbracciato a Irina, una donna russa che sembra amarlo più di quanto egli non la ricambi. L'uomo ritrova senza particolare nostalgia la Francia natale, che lo accoglie fermandolo all'aeroporto per controllare un'irregolarità dei documenti. L'episodio lo induce a confrontarsi con tre momenti della gioventù che hanno determinato la sua vita: è appunto la giovinezza la dimensione in cui si inoltra il film, contemplata retrospettivamente come età di iniziazione, di passionalità, quindi di idealismi destinati a essere usurati da delusioni e disillusioni.
Come al solito, Desplechin ha concepito il film non come una sceneggiatura organica ma una serie di romanzi frammentari poi adattati assieme alla fidato Julie Peyr. Tre romanzi d'iniziazione che vengono narrati in tre registri differenti, sorvegliati da uno stile che rimane sempre distaccato e lieve, instaurando un'intimità con i personaggi, anche per il ricorso agli sguardi in macchina, e da una scrittura filmica avvolgente e imprevedibile, grazie all'uso di travelling e split screenL'Enfance inizia come una novella gotica: in una notte allucinata e concitata, da incubo, vediamo il piccolo Paul in cima alle scale che insulta violentemente e minaccia una madre inquietante, brandendo un coltello e ordinandole di non avvicinarsi alle sorelle, come se l'avversione contro la madre dello Stephen Dedalus di Ritratto dell'artista da giovane e di Ulysse fosse stata tradotta nei termini parossistici di un horror. Nel corso del film rimarranno sempre enigmatiche le ragioni di tanto odio, perché gli accenni fugaci alla follia della madre li lasciano irrisolti ma è evidente che l'esistenza di Dédalus è stata segnata da un trauma misterioso, come la maledizione di una tragedia greca. Da adulto sembrerà cercare una madre sostitutiva nell'etnologa Béhanzin (omonimia non causale con il re di Abomey, eroe della resistenza africana contro la Francia colonialista) ma ne rimane "orfano" in seguito alla sua morte improvvisa e in segno di lutto si tinge il volto di nero con il lucido da scarpe, come in un rito tribale. «Non ho sentito niente», ripeterà ogni volta che ha subito una dolorosa aggressione fisica, anche quando non può essere vero, come se il dolore provato nell'infanzia lo avesse cauterizzato da ogni ulteriore ferita.
Lo vediamo poi rifugiarsi presso la vecchia zia Rose che ospita un'esule russa (di cui è l'amante) e quindi subentra un clima di attesa cechoviana – più drammatici sono i racconti orali di vicende accadute durante lo stalinismo che ascoltiamo dall'esule – clima che scivola presto in tonalità funebri quando si apprende che la madre è morta senza riconciliazioni e si celebrano le sue esequie, mentre il padre viene investito da un'oscura depressione che lo rende collerico.
(...)
I due brani narrativi iniziali fungono da prologo all'iniziazione sentimentale, ossia Esther, la storia d'amore con una ragazza (che nel film del 1996, sarà interpretata da adulta da Em­manuelle Devos), con cui Dédalus stringe una relazione appassionata e intensa, che sembra poter resistere a ogni avversità e a ogni reciproco tradimento. Ma non resiste, invece, alle condizioni economiche – di estrazione modesta, il giovane deve conquistare faticosamente un'affermazione professionale prima a Parigi dove non ha i soldi per pagarsi un alloggio e deve chiedere ospitalità a chi si attarda nella biblioteca del Quartiere Latino, poi viaggiando per il mondo. L'adozione del Cinemascope conviene al respiro da epopea intima di un film dove i diversi spazi che si susseguono sembrano, nonostante gli incontri e le esperienze, accentuare la solitudine di Dédalus.
La storia d'amore ha all'inizio momenti d'incanto che Desplechin evoca valorizzando la fenomenologia fisica ed emotiva dei suoi giovani attori (...), nel ventaglio di situazioni che li avvicinano sempre più irresistibilmente l'uno all'altra per poi condurli delicatamente alla scoperta della propria carnalità. Il loro amore finisce usurato anche dalla libertà sessuale che i due si sono concessi, dato che proprio gli amici di Dédalus approfittano della solitudine della ragazza e della lontananza di lui, fino a provocare perfino una temporanea rottura fra di loro.
L'erosione è dovuta anche alla fragilità di Esther, che si rivela assai differente da quella che appariva nelle prime sequenze, quando sembrava dotata di una sicurezza, di un'energia e di una serena arroganza inattaccabili. La progressiva rivelazione della vulnerabilità di Esther mette al tempo stesso a nudo l'inadeguatezza di Dédalus nel vivere quella relazione. I viaggi che il giovane intraprende sono scanditi dalle lettere che i due amanti si scrivono e che registrano il logorio della loro storia, come in un romanzo epistolare.
Nell'epilogo, trovatosi di fronte, dopo molti anni, all'amico che lo aveva tradito, gli rinfaccerà la sua slealtà, consumando una piccola vendetta postuma la cui amarezza sembra acuita e paradossalmente attenuata, alla fine, da un'ultima immagine luminosa di Esther, ricordata in un momento intimo del loro rapporto, che rivolge lo sguardo alla mdp. Rimane il fermo immagine di una felicità perduta e cristallizzata nella sita memoria.
Roberto Chiesi, Cineforum n. 556, 7/2016

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