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Traviata '53


Regia:Cottafavi Vittorio

Cast e credits:
Soggetto: Federico Zardi, Tullio Pinelli; sceneggiatura: Siro Angeli, Tullio Pinelli; fotografia: Arturo Gallea; musiche: Giovanni Fusco; scenografia: Giancarlo Bartolini Salimbeni; interpreti: Barbara Laage (Rita), Armando Francioli (Carlo Rivelli), Gianna Baragli (Signora Rivelli), Carlo Hintermann (Gianpaolo), Luigi Tosi (il medico), Marcello Giorda (Ing. Rivelli), Gabrielle Dorziat (Signora Zoe), Eduardo De Filippo (Commendator Cesati); produzione: Produzione Venturini (Roma)-Synimez (Parigi); distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Italia, 1953; durata: 105’.

Trama:«Giovane ingegnere provinciale, Carlo Rivelli sbarca a Milano come Rastignac a Parigi, lasciando nella sua cittadina natale amici e fidanzata. Fin dalla prima sera, passata in un cabaret alla moda, fa la conoscenza di Rita, cortigiana di gran classe che naviga nell’alta società milanese e sgrana dietro di sé una folla di amanti miliardari, pronti a morire o a uccidersi l’un l’altro per un suo sguardo. Facile indovinare il seguito: Rita trova in Carlo una freschezza, una sincerità a cui non è più abituata, e nasce l’Amore, con la maiuscola. Ahimé! Uno dei vecchi amanti di Rita architetta una macchinazione diabolica che farà rientrare soltanto se Rita accetta di liquidare il giovanotto. Se invece rifiuta, il malvagio si applicherà a rovinare Carlo e la sua famiglia. Rita, definitivamente convertita, si sacrifica; d’allora in poi condurrà una vita miserevole, vagando e tossendo per strade e viali, fino alla morte, in sanatorio. Il cattivo, divenuto buono, racconta a Carlo nei dettagli gli ulteriori episodi della vita di Rita. Ma Carlo è ormai felice, così ci si dice, ha sposato la fidanzata, e dunque Rita resterà l’unica vittima di questa romantica avventura» (F. Truffaut, Arts, n. 461, 1954)

Critica (1):«Traviata '53 - per usare le parole dello stesso Cottafavi – è la storia della donna resa oggetto, macinata e distrutta dagli egoismi degli uomini». Si tratta di un rifacimento, dovuto a Federico Zardi e Tullio Pinelli della "Signora dalle camelie" di Dumas, a cui collaborarono anche Cottafavi e Siro Angeli, con trasposizione della storia di Margherita Gauthier nella Milano neocapitalistica contemporanea e introduzione di varianti per rendere più attuale e credibile il contenuto drammatico della vicenda. Cottafavi vi giunse, dopo aver realizzato per il produttore Giorgio Venturini un paio di film di cappa e spada che dimostrarono la sua maestria tecnica e la sua alta professionalità (sui quali torneremo), su invito dello stesso Venturini che riteneva il dramma di Dumas estremamente valido drammaturgicamente e ricco di motivi d'attualità. Per Cottafavi fu l'occasione di trattare liberamente, con molta serietà e un vivo interesse per i personaggi, l'ambiente e la storia, un problema sociale e morale che consentiva una vasta gamma di possibilità interpretative.
Richiamandosi per certi aspetti a Cronaca di un amore di Antonioni, come fu rivelato anche da qualche critico, ma riprendendo esplicitamente i modi e le forme del melodramma in una chiave "popolare", giocando gli effetti con vigile senso della misura e introducendo elementi di critica nelle pieghe del racconto, Cottafavi affrontò di petto il tema della condizione della donna "resa oggetto" con uno stile che nascondeva la sottile ironia e la feroce critica di costume dietro gli orpelli d'uno spettacolo condotto secondo le regole abituali del romanzo passionale e della commedia borghese. (…)
Quanto allo stile melodrammatico e alla sua funzione in determinati contesti spettacolari, può essere interessante leggere quanto ebbe a dichia­rare Cottafavi: « A partire dal melodramma, io cercavo qualcosa d'interiore, qualcosa di vero. Cercavo di riprendere col cinema l'anima, i sentimenti se­greti. Io credo che l'obiettivo della macchina da presa è più intelligente di noi che ce ne serviamo, e che, forse, può vedere, vede sicuramente all' interno dei personaggi più facilmente dell'occhio normale». E più oltre: «Il melodramma è un po' la stessa cosa [della tragedia] alla rovescia: queste storie di donne che andavano al delitto, al suicidio attraverso i loro rapporti con l'uomo, con la società, offrivano a volte una lieve possibilità di humour, legato a un sentimento affettuoso che nutrivo per i personaggi, un humour benevolo. Il melodramma ha regole molto strette. Non so dire se le rispettavo. Prima di tutto volevo, a partire da uno schema accettato dal pubblico ita­liano, interiorizzare la storia; non i dati della storia, bensì le reazioni di certi personaggi davanti ai dati del dramma. (…)»
« È un tema, quello della morte, che io sento molto – disse Cottafavi – a tutti i livelli, perché tutti i drammi della vita sono dei gradini per arrivare alla grande morte finale. E la morte tutti la conoscono, tutti l'hanno vista, ma ogni volta che la devo filmare, cerco di scoprirla. Per questo credo di averlo fatto bene. In Traviata '53, la morte della ragazza è una scoperta della morte. La ragazza non c'è, è nella cassa già chiusa – la si sta inchio­dando –, e gli altri se ne infischiano, sono lì soltanto perché devono inchio­dare la cassa. Tutti abbiamo visto una cosa simile, tutti abbiamo avuto un parente o ,amico che è morto, e così è stata chiusa la cassa. Ogni volta la morte deve essere scoperta secondo il carattere, la linea generale di ciò che stiamo cercando».
Ma Traviata '53 non è interessante soltanto per questo tema della morte, o perché costituisce un esempio validissimo di melodramma cinematografico. Esso è anche un campionario delle soluzioni linguistiche adottate da Cotta­favi, ben oltre quello offerto dalla Fiamma che non si spegne, in direzione di un cinema introspettivo, essenzialmente « filmico » secondo i presupposti teo­rici e pratici del grande cinema muto, in cui il dramma si evidenziava nell'im­magine e nelle sequenze di immagini. O meglio, in questo film Cottafavi spe­rimenta un linguaggio fortemente allusivo, che tuttavia non trascura gli ele­menti abituali dello spettacolo popolare, anzi su di essi è costruito, ma li depura a poco a poco di ogni sovrastruttura banalmente melodrammatica, per concentrare l'attenzione su pochi elementi rivelatori. Di qui l'importanza della composizione delle inquadrature, la cura del montaggio, e soprattutto la progressiva rinuncia al dialogo drammatico in favore di sequenze « mute », che parlano proprio grazie alla loro intensità drammaturgica.
Valgano, per tutte, le quattro ampie sequenze mute che scandiscono la seconda parte del film: quella del vagone-letto, con la separazione definitiva di Rita da Ceriani, chiusa in una disperazione che prende a poco a poco i due personaggi e li trasforma, nella loro reciproca solitudine, in due estranei; quella della scoperta della tubercolosi, con il vagabondare notturno della donna, sullo sfondo di una città livida, desolata; quella, precedente, della gelosia di Carlo, quando attende Rita di notte, davanti alla sua villa, e si rode di gelosia; quella infine della morte della donna, o meglio del suo fune­rale in sordina, tra l'indifferenza generale, con quella cassa che viene sigillata con la fiamma ossidrica, la madre e la sorellina chiuse in un dolore inespresso, il furgoncino anonimo che trasporta la salma giù per la strada di montagna: un quadro allucinante di desolazione, accentuato dal contrasto ottenuto con una musica asincronica di rara efficacia drammatica. (…)
Gianni Rondolino, Vittorio Cottafavi cinema e televisione, Cappelli Editore, 1980

Critica (2):[...]D. L’ultima domanda riguarda una versione della Traviata piuttosto originale, ossia la Traviata ’53 di Vittorio Cottafavi. Mi sembra che questa sia la lettura paradossalmente più “filologica” della Traviata perché è ambientata nella contemporaneità – negli anni Cinquanta – ed ha a che fare con la società borghese, proprio come nel caso di Dumas e Verdi.
R. Era un momento di passaggio per l’Europa in generale e per l’Italia in particolare. Cottafavi –uomo intelligente e sensibile, ma bistrattato dalla critica - aveva compreso che si poteva riproporre la Traviata solo se la si immergeva di nuovo nella società. Nel secondo dopoguerra si stava vivendo un momento di crisi e la borghesia, dopo la disperazione post bellica, stava riemergendo, con le proprie qualità e soprattutto con le proprie debolezze (quelle che Antonioni indagava con acutezza ben maggiore). Il film di Cottafavi è comunque riuscito a cogliere tale passaggio e proprio in questo risiede la sua importanza.
intervista di Maria Agostinelli a Fernaldo Di Giammatteo in www.railibro.rai.it

Critica (3):«Negli anni Cinquanta, Torino era diventata un po’ la legione straniera del cinema italiano. A capo di tutto c’era Venturini, che era stato messo da parte perché aveva lavorato con Mussolini. C’ero io, che non mi ero ancora del tutto ripreso dalle stroncature veneziane per La fiamma che non si spegne, e così via. Però si guardava al futuro, si facevano coproduzioni con la Francia, si faceva il lavoro al meglio. […] Ad esempio, mi interessava molto l’uso dei silenzi. Con il cinema sonoro si è avuta una degenerazione. Tutti parlano in fretta, non si zittiscono mai: quanta nostalgia per il silenzio! […] Ho cercato questo soprattutto in Traviata ’53. Cercavo l’interiorizzazione, e l’obiettivo entra nell’animo: con la macchina da presa arriviamo a una scoperta graduale del personaggio. All’atto di girare il film ci stupiamo noi stessi delle scoperte della macchina da presa. Pensiamo a Ordet di Dreyer: la natura umana, la vita, la morte sono estratte dall’interno dei personaggi ed esibite. Del cinema mi interessa soprattutto questo e non c’è differenza se il film è in panni moderni o in costume visto che si può ottenere lo stesso risultato, l’importante è avere chiaro il fine ultimo. Quando negli anni Cinquanta lavoravo a Torino, lo facevo con questo spirito»
Vittorio Cottafavi, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura,
Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).

Critica (4):Il film è del genere di quelli che catturano l’interesse degli spettatori, ma di cui i critici, se pure li vedono, danno conto con la morte nel cuore. Fille d\'amour, tuttavia, è l’eccezione che conferma la regola, visto che si tratta, in fin dei conti, di uno dei migliori film italiani apparsi quest’anno sugli schermi parigini. Gli autori, che gli hanno dato come sottotitolo Traviata 53, non si preoccupano minimamente di nascondere il fatto che il loro film costituisce un plagio di uno dei massimi esempi della nostra letteratura romantica: "La Dame aux camélias". Ma questa storia, ai giorni nostri priva di senso, inverosimile e melodrammatica, Vittorio Cottafavi ha saputo renderla sensata, verosimile e realmente drammatica. Messa al servizio di una affabulazione di maggiori pretese, la messa in scena del film, ricercata e un po’ scolastica, richiederebbe qualche rilievo, ma in un contesto così melodrammatico la cura, l’applicazione, la ricerca di buon gusto costituiscono un’ambizione più che lodevole. Se il cinema italiano di qualità è infatti caratterizzato dall’originalità di soggetti guastati dalla mediocrità della tecnica, si capirà allora come questo film, che è l’esatto contrario, risulti mille volte più interessante da vedere di quelli di De Santis, Lattuada, Germi, Visconti e di tanti altri registi esageratamente lodati dagli intenditori. Imbroglio tecnico se mai ce ne fu, "La Dame aux camélia"s, sorta di Fedra dei poveri, trova qui nei suoi minimi dettagli, una verità, un’umanità nuova, grazie alla continua invenzione nella recitazione degli attori, nei loro atteggiamenti, i loro gesti, i loro sguardi. La scelta degli esterni, degli interni dal vero, delle scenografie, si conferma infatti come il contrassegno del buon gusto degli attori. Barbara Laage trova qui la sua miglior parte, liberandosi delle eccessive riserve delle sue precedenti interpretazioni. Un’ombra sullo schermo: la musica, che pur essendo di qualità, resta tuttavia invadente e inadeguata. Perfetta invece la fotografia. La produzione italiana, come quella americana, si appresta dunque in futuro ad ammanirci simili sorprese? Non ci resta davvero che augurarcelo.
François Truffaut,
Arts, n. 461, 1954).
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