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Look of Silence (The)


Regia:Oppenheimer Joshua

Cast e credits:
Fotografia: Lars Skree, Anonymous, Joshua Oppenheimer, Christine Cynn; musiche: "Seri Banang" (tradizionale), "Mana Tahan" (tradizionale), "Lukisan Malam" (musica: E. Sambayon; testo: Sakti Alamsyah; interprete: Sam Saimun), "Rege Rege" (tradizionale).; montaggio: Niels Pagh Andersen; effetti: Nordisk Film Shortcut; interprete: Adi Rukun; produzione: Final Cut For Real-Anonymous-Piraya Film-Making Movies-Spring Films; distribuzione: I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection; origine: Danimarca-Norvegia-Finlandia-Gran Bretagna-Indonesia; origine: Danimarca-Norvegia-Finlandia-Gran Bretagna-Indonesia, 2014; durata: 98’.

Trama:Una famiglia indonesiana scopre, attraverso il lavoro di ripresa compiuto durante il genocidio del 1965-1966, l'identità dell'assassino di uno dei figli. Il più giovane della famiglia si chiede come possa crescere i propri figli in una società in cui i sopravvissuti sono ridotti al silenzio e i carnefici trattati come eroi. In cerca della verità, l'uomo decide di incontrare gli assassini sopravvissuti e coinvolti nell'omicidio del fratello. Inizierà così un dialogo senza precedenti.

Critica (1):A visione ultimata si rivela che il processo di significazione di The look of Silence è già posto ai margini iniziali del testo, lungo le cosiddette ciglia del film. Titoli di testa e immagine d’apertura sono rivelatori di quello che sarà il discorso filmico di Joshua Oppenheimer, che riprende (anche se in realtà anticipa, perché realizzato in precedenza) quanto già rappresentato con The Act of Killing. I numi tutelari che sostengono, producendolo, questo dittico sulla dittatura indonesiana sono Werner Herzog e Errol Morris, autori che confrontandosi con la prassi documentaristica ne hanno rivelato i limiti se non addirittura l’impossibilità di un tale approccio registico. E Oppenheimer prosegue quanto da loro cominciato dimostrando che l’elaborazione filmica corrisponde ad una precisa messa in forma che registicamente non può non tradursi in una vera e propria messa in scena.
Il soggetto filmante è intimamente coinvolto con quanto ripreso, dimostrarne il contrario sarebbe meschina falsificazione. Meglio quindi esporsi, come fa Oppenheimer (così come già Herzog e Morris), dimostrarsi parte in causa rispetto a quanto rappresentato, rivelare la parzialità dell’angolatura prospettica, la propria partecipazione fisica (e quindi la diretta esposizione al rischio), piuttosto che inverare la bugiarda idea di oggettività documentale. Quello proposto dal regista di
The Look of Silence è un cinéma vérité alla Chris Marker, secondo l’accezione formulata da Rondolino, un dispositivo filmico che adopera «la cinecamera come agente provocatore, come stimolatore di reazioni e comportamenti, i quali si realizzano proprio sotto la sua azione. […] la realtà e la sua verità nascono dal cinema, sono il frutto del suo intervento diretto». Ciò che va in scena trae la propria forza espressiva dall’esperienza diretta e dalla relazione fra ambiente e protagonisti. Lo sviluppo non è dato dalla riproduzione di modelli narrativi o figurativi stabiliti a priori, ma dalla produzione di un evento di cui la macchina da presa è partecipe.
Se con il precedente lavoro la prospettiva di partenza era quella dei carnefici, miliziani collusi al regime militare responsabile del colpo di stato del 1965, questa volta Oppenherimer adotta il punto di vista di uno dei parenti delle vittime: un reduce, uno sconfitto, che, nonostante la consapevolezza (e quindi l’impotenza) del proprio status, decide di affrontare e sfidare lo sguardo di chi ha permesso l’imporsi del regime: tanto quello dei boia, dei politici, quanto quello dei loro dei loro inconsapevoli eredi, così come quello dei sopravvissuti, a modo loro compartecipi con il perpetuarsi della dittatura. E tra questi ultimi trovarsi costretti a guardare come complici dell’olocausto anche i propri affetti più cari: lo zio (carceriere) e di riflesso la propria madre, colpevole d’aver coscientemente distolto lo sguardo dall’evidenza partecipando, così, al massacro del proprio primogenito.
Si è parlato, non a caso, di sguardi, perché tutto il film, sin dalla sequenza iniziale (ma ancor prima, col titolo), si presenta come una riflessione sull’atto di mettere a fuoco e sulla relazione visiva. Oppenheimer affianca Adii, occhialaio che con il pretesto di rifare lenti riesce ad avvicinare mandanti, esecutori e conniventi dello sterminio, e in bell’evidenza, quasi in maniera didascalica, sottolinea come il proprio approccio registico non sia poi tanto differente dal mestiere dell’ottico: in entrambi i casi si tratta di trovare il giusto diaframma, attraverso il quale poter focalizzare,
mettere in quadro, con chiarezza il reale, riuscire a vedere e far vedere in profondità, per prendere consapevolezza della propria posizione, e quindi del proprio coinvolgimento, col mondo attorno e con ciò che ha reso possibile il suo manifestarsi.
Tutto ciò, ovviamente, implica tanto chi sta da un parte quanto chi dall’altra della lente, chi è in scena così come chi ne rimane ai margini. È tra i soggetti coinvolti (Adii, i suoi interlocutori, il regista, e gli spettatori) che si instaurano le dinamiche visive che prolungano i faccia a faccia al di là delle parole: bisogna mostrarsi capaci (tutti) di sostenere lo sguardo(consapevoli quindi della propria parte) nonostante l’ammutolente evidenza dei fatti.
Matteo Marelli,
cineforum.it

Critica (2):19/11/2014

Critica (3):

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