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Diario di campagna - Yoman sade'


Regia:Gitai Amos

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Amos Gitaï; fotografia: Nurith Aviv; montaggio: Schéhérazade Saadi; produzione: Richard Copans per Les Films d’ici; suono: Saar Avi Gur e Chaim Mekelberg; missaggio: Thierry Delor; origine: Francia/Israele, 1982; durata: 83'

Trama:Qualche mese prima dell’invasione del Libano da parte di Israele, Gitai decide di fare un film in forma di reportage per sottoporre a verifica la realtà dell’occupazione in Cisgiordania che si protrae dal 1967. “Tornavo in Israele nel marzo del 1982, la data è importante, tenendo conto che l’invasione del Libano avviene in giugno. Il progetto consisteva nel seguire un percorso preciso: Nurith Aviv, la mia operatrice, e io, partivamo ogni mattina da Tel Aviv, viaggiavamo verso Ramallah e poi verso sud, fino a Gerusalemme. Il nostro itinerario seguiva una specie di triangolo e filmavamo in modo sistematico gli eventi che incontravamo lungo il percorso. In quel tipo di progetto il rapporto fra la camera e ciò che riprende è essenziale: la censura non è astratta, come quando la televisione si rifiuta di mettere in onda House, ma è dentro lo schermo perché ci impedisce di filmare. Vietare di riprendere è un atto violento nei confronti dello spettatore, gli impedisce di vedere certe cose… Le riprese sono iniziate tre mesi prima dell’attacco al Libano

Critica (1):Realizzate esattamente sullo stesso modello, le due inquadrature iniziale e conclusiva sono troppo simili nel loro spirito per non essere esemplari del metodo scelto, disorientante per gli attori, gli spettatori o i media polarizzati sulla questione, data la singolarità di questo sguardo sfasato attraverso il quale ci è necessario passare per accedere alla realtà politica del soggetto. Questa cinepresa adesca. Nel suo turbamento, il soldato intuisce confusamente il rapporto tra questa cinepresa e lui che lo lascia completamente disarmato, indeciso e paralizzato. Il soldato sa bene che a partire dal momento in cui ha reagito alla cinepresa, ha cominciato a lasciarsi sedurre da essa e che deve essere aggressivo con i cineasti per lottare contro la sua propria seduzione. Qui o altrove, i soldati hanno ragione di diffidare di questa cinepresa quanto è vero che essa introduce una dimensione nuova, estranea e irriducibile alla realtà empirica della guerra. Non si fa una guerra adescando, non ci si batte a colpi di seduzione, nulla delle apparenze di questo gioco è compatibile con la posta reale della guerra, anche la strategia bellica procede diversamente, per mimetizzazioni.
(...) Un diario di guerra è una testimonianza, una descrizione delle cose viste, attraversate e riflesse in una coscienza. È dunque essenzialmente soggettivo e senza pretesa di esaustività sul soggetto dire sostanzialmente: “Il tal giorno ero qui e ho visto queste cose”. Nel pressbook Amos Gitaï spiega come tutte le mattine la troupe prendeva la stessa strada e tornava la sera per un’altra, sempre lo stesso itinerario attraverso la Cisgiordania e la striscia di Gaza. «Geograficamente noi abbiamo concentrato i nostri sforzi sulla stessa strada attorno ad alcuni campi. La maggior parte del film è stata girata in uno spazio di circa diciotto chilometri». Il film è composto di una cinquantina di piani sequenza concepiti come altrettante “capsule” autonome e realizzate per la maggior parte in auto, come se questa fosse il carrello inseparabile, il supporto mobile della cinepresa. La strada è così trasformata in un interminabile travelling che si estende attraverso le zone occupate, senza sospensioni, pause, rallentamenti, punti forti. (...) Gitaï non oppone due nazionalismi, egli filma dietro le linee israeliane, l’argomento è considerato come una questione interna a Israele. Tra Israeliani e Palestinesi, la cinepresa accumula piuttosto i rapporti di debolezza, quelli che non devono vedersi (come il sindaco di Nablus), dove, anziché opporsi, i poli avversari si avvicinano sorprendentemente l’uno all’altro finendo anche per rassomigliarsi, per non dire altro che questa somiglianza: l’amore per la terra degli antenati, l’attaccamento alle proprie radici. La cerimonia di commemorazione della battaglia di Bar Kocha, vittoria del popolo ebreo sui Romani duemila anni fa, e i pianti delle donne palestinesi che invocano la collera divina contro coloro che sono venuti coi loro bulldozer ad abbattere l’oliveto sacro del loro villaggio, procedono da una stessa volontà, da una stessa esigenza, al di là degli interessi divergenti e dall’ostilità attuali dei due popoli. E le aspirazioni del nuovo colono israeliano non sono fondamentalmente diverse dalle rivendicazioni del contadino palestinese che teme una prossima espropriazione. Ogni “capsula”, ogni piano-sequenza, producendosi in modo autonomo, isola un individuo, contadino, soldato, donna, che parla solo di se stesso, di dove viene e di dove va. Da un’inquadratura all’altra le opinioni non coincidono, ma finiscono per tracciare l’immagine della geografia umana di questo paese, un’immagine lacerata, presa tra due poli antagonisti senza peraltro ridursi all’espressione di questa sola opposizione.
Yann Lardeau, Cahiers du cinéma n. 344, febb. 1983

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Amos Gitai
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