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Anime nella nebbia - V tumane


Regia:Loznitsa Sergeï

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo di Vasili Bykov; sceneggiatura: Sergeï Loznitsa; fotografia: Oleg Mutu; montaggio: Danielius Kokanauskis; scenografia: Kirill Shuvalov; costumi: Dorota Roqueplo; interpreti: Vladimir Svirskiy (Souchénia, il santo), Vladislav Abashin (Burov, l'indeciso), Sergeï Kolesov (Voïtik, il criminale), Vlad Ivanov (Comandante in capo), Yulia Peresild (Anelia), Nikita Peremotovs (Gricha), Kirill Petrov (Koroban), Dmitrijs Kolosovs (Mitchouk), Dmitry Bykovskiy (Yaroshevich), Nadezhda Markina (madre di Bourov), Stepans Bogdanovs (Topchievsky), Igor Khripunov (Mirokha); produzione: Ma.Ja.De. Fiction, Rija Films, Gp Cinema Company, Lemming Film, Belarusfilm, Zdf/Arte; distribuzione: Moviemax (2013); origine: Germania-Russia-Olanda-Bielorussia-Lettonia, 2012; durata: 127'.

Trama:Nel 1942, durante l'occupazione della regione occidentale della Russia da parte dei tedeschi, si snoda la storia di Souchénia, prelevato da due partigiani sovietici poiché accusato di collaborazionismo. Durante il tragitto i tre cadono vittime di un' imboscata...

Critica (1):In tempi in cui il cinema sta venendo meno anche agli spazi a cui è stato (re)legato per più di un secolo e nei quali la ridiscussione sul ruolo della Settima Arte si sta ponendo in maniera sempre più urgente, c'è chi ancora, ahinoi, si sente in vena di affidarsi, in campo cinematografico, alle etichette e alle definizioni. Sergei Loznitsa, apprezzato regista di l' tumane e già in concorso a Cannes nel 2010 con Scast'e moe (Joy), a questo proposito, è assurto nel giro di breve tempo dalla classificazione di Documentarista a quella di Autore.
La cosa ci pare interessante non tanto (o non solo) perché ci ricorda quanto sia pericoloso liquidare il valore di un'opera facendone aderire portata e significato alle caratteristiche e alle peculiarità del proprio autore, ma soprattutto perché il caso Loznitsa dimostra in maniera inequivocabile quanto la personalità e la sensibilità artistica dei cineasti sia in grado di porsi quale superamento di tutto ciò. Vale a dire che le caratteristiche del regista ucraino che sì, ha firmato documentari per più di un decennio prima di girare Scast'e moe (anche se noi preferiamo dire che Scast'e moe è né più né meno il suo nono film), consentono di considerare quest'ultimo lavoro qualcosa che racchiude in sé uno sguardo e un'idea di mondo che vanno al di là di qualsiasi formalismo o incasellamento di ordine tassonomico.
Quel che più conta infatti è che Loznitsa, adattando il cupissimo, omonimo, romanzo di Vasily Bykov ambientato nella steppa della natia Bielorussia (natia sia per lo scrittore che per il regista) durante la Seconda guerra mondiale, non si preoccupa minimamente di denunciare l'origine del proprio sguardo. E il pregio che dimostra nell'imbastire una messinscena in grado di mischiare stile e forma, attesa e pura osservazione — senza che si capisca mai quale di questi atteggiamenti venga prima degli altri — consente di superare, da un lato, qualsivoglia distinzione fra dato documentario ed elemento narrativo, dall'altro (in parte) anche i dubbi sull'eccessivo carattere manierista di una regia a tratti talmente rigorosa da divenire quasi punitiva.
Anche l'essenzialità della storia — quella di Sushenya, un giovane ferroviere sospettato di collaborazionismo con i nazisti che, catturato da due partigiani sovietici, finisce per smarrirsi con i suoi carcerieri nella foresta, trovandosi a doversi fare carico dei destini e delle vite dei compagni di sventura e a dover prendere decisioni gravi e definitive — diviene propedeutica per un tipo di rappresentazione capace di elaborare l'ontogenesi stessa del racconto soltanto agendo per elementi sottrattivi: sospendendo l'azione e dilatando il tempo della narrazione.
Uno sguardo orizzontale, quello di Loznitsa, capace di restare incollato ai personaggi ma di essere allo stesso tempo gelido, distante, quasi indifferente. Filmare per lui significa andare dietro al movimento dei propri protagonisti, certo, a cominciare dai lentissimi piani sequenza che orchestra con una maestria davvero rara — quello a inizio film, con la macchina che segue i condannati a morte, lascia davvero ammirati in questo senso —, ma il suo è anche un cinema fatto di eleganti e significativi squarci sul paesaggio. Basti pensare come la nebbia, elemento naturale dall'enorme potere evocativo, che nel finale cala con estremo pudore sui corpi ormai inerti dei tre uomini, sia presente già nel titolo del film. Inquadrature che filtrano, riscrivono e evocano in modo impeccabile il senso di attesa, di assoluta distanza e di isolamento esistenziale nel quale versano le vite dei personaggi.
Non esiste, del resto, consolazione alcuna nel microcosmo fuori dal tempo e dallo spazio che Loznitsa dipinge. E la guerra, già tema centrale nel film precedente, qui si erge a metafora esistenziale, a condizione di vita universale da cui appare impossibile trovare conforto, scampo, salvezza.
Lorenzo Rossi, Cineforum n. 515, 6/2012

Critica (2):Un lungo piano sequenza segue l’incedere di una fila di prigionieri. Insieme a loro, ascoltiamo gli ordini impartiti dal comando superiore: d’ora in poi, chi si ribellerà al nazismo sarà giustiziato. E la stessa fine è riservata a chi dovesse aiutare i partigiani, che combattono per una “guerra già persa”. Bielorussia, 1942. Sergei Loznitsa torna in concorso a Cannes due anni dopo il folgorante My Joy: la mano è riconoscibile – abbiamo contato poco più di 60 tra stacchi e dissolvenze (127 minuti la durata del film per una media di 2′ di scene realizzate in piano sequenza) – anche se in questa occasione il racconto sembra nascondere meno cripticità rispetto al precedente. In the Fog (Anime nella nebbia, ndr.)è una marcia lugubre verso il definitivo inghiottimento dell’umanità: Sushenya (Vladimir Svirski) viene prelevato dalla propria abitazione da due partigiani, Burov (Vlad Abashin) e Voitik (Sergei Kolesov). È accusato di aver tradito tre colleghi, operai della ferrovia come lui, catturati dai nazisti e giustiziati mentre lui è stato rilasciato. Nessuno sa come siano andate effettivamente le cose, ma il fatto che Sushenya sia stato prima imprigionato e poi lasciato libero, agli occhi dei compaesani, è già di per sé una condanna.
Loznitsa costruice il film “prelevando” dal contesto tre figure simbolo, “chiudendole” nell’impervia vegetazione di un bosco autunnale. Il presente si concentra sul destino di Sushenya, che finirà per incarnare quel barlume di speranza a cui sono affidate le sorti dell’umanità. L’uomo scampa per miracolo alla morte: il suo aguzzino, Burov, con il quale condivide gli anni dell’infanzia e della crescita, viene ferito da un commando nazista. Sushenya non fugge, gli presta soccorso. Lo carica sulle sue spalle. E così farà per l’intero tragitto che lo separa dalla fine. Da quel momento, conosceremo gli aspetti più significativi che hanno caratterizzato gli ultimi giorni dei tre uomini. Soprattutto, Sushenya racconta a Burov (in fin di vita) come andarono davvero le cose con i nazisti. E come, da quel giorno, avrebbe preferito esser giustiziato piuttosto che continuare a vivere sotto l’onta del tradimento: ma la condanna inflittagli dai nazisti – che gli avevano proposto una collaborazione segreta, rifiutata dall’uomo – è peggiore della morte.
“Mi conoscono tutti da sempre, come è possibile che mi credano capace di questo?” – chiede Sushenya a Voitik verso la fine del cammino. “In tempi come questi ognuno è capace di qualsiasi cosa per sopravvivere”, risponde l’altro. Il quale, capiremo poi, per mettersi in salvo dai nemici non esitò a rivelare la posizione di una famiglia che fino a quel momento lo aveva aiutato. Ognuno è capace di qualsiasi cosa: non Sushenya, però. Che alla fine è l’unico a sopravvivere, come la speranza. Almeno fino a che la nebbia non lo inghiotta insieme a lei.
Valerio Sammarco, cinematografo.it, 25/5/2012

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