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Storie di spie - Patriotes (Les)


Regia:Rochant Eric

Cast e credits:
Scenegiatura
: Eric Rochant; fotografia: Pierre Novion; montaggio: Pascale Fenouillet; musica: Gèrard Torikian; scenografia: Thierry Français Comtet; costumi: Marie Malterre; interpreti: Yvan Attal (Ariel), Yossi Banai (Yossi), Sandrine Kiberlain (Marie-Claude), Richard Mazur (Jeremy Perlman), Moshe Yvguy (Oron), Jean-François Stèvenin (Rèmy Prieur), Bernard Le Coq (Bill Hayden), Emmanuelle Devos (Rachel), Maurice Benichou (Yuri), Nancy Allen (Catherine Parlman), Allen Garfield (Eagleman), Christine Pascal (Laurence), Hyppolite Girardot (Daniel); produzione: Xavier Amblard per Les Productions Lazennec; origine: Francia, 1994: durata: 120'.

Trama:Il francese Ariel, compiuti i 18 anni, abbandona la famiglia e Parigi deciso a diventare agente del Mossad, il servizio segreto israeliano. Dopo il periodo di formazione, la sua prima missione è relativamente facile e senza particolari problemi di coscienza: corrompere un fisico nucleare perchè non collabori con i nemici di Israele. Già la seconda, però, implica problematiche molto più ardue...

Critica (1):Ragionando su un film a volte può capitare di intravvedere, improvvisamente, un sottile spiraglio attraverso cui l’opera in questione può venir segnata da un percorso interpretativo che del discorso fornisca una comprensione organica, una soluzione di lettura che permetta di comprendere le ragioni e le intenzioni più profonde. Si tratta proprio di ciò di cui si mette alla ricerca lo spettatore dopo la visione di Les patriotes, terzo lungometraggio del giovane Eric Rochant, splendido esordiente nel 1990 con Un mondo senza pietà, storia di un “ventenne partigiano”, Ariel, di origine ebraica, che abbandona famiglia e abitudini per trasferirsi a Tel Aviv, dove si arruola nel Mossad, i servizi segreti israeliani. La bandiera bianco azzurra con la stella dello Stato di Israele sventola sicura: a vegliare su di essa ci sono i veri patrioti, i “principi” come li chiamava la gente, l’armata delle ombre (per ricordare il grande film di Melville sulla Resistenza), gli agenti segreti che in tutto il mondo non esitano a intervenire con mezzi più o meno violenti pur di sabotare tutte le operazioni che potrebbero nuocere alla sicurezza di Israele. È il 1983: Ariel (interpretato da Yvan Attal: l’attore preferito da Rochant, nativo di Telaviv, che recita indifferentemente in ebraico, inglese o francese) viene prima messo alla prova per saggiare la propria resistenza fisica e psicologica, e soltanto dopo lungo tempo gli viene affidata la prima missione. Nel corso dei lunghi mesi di addestramento il protagonista impara a vivere solo per sé e per la causa, a dimenticare gli affetti e i legami, a camminare da solo per strada, eroe della resistenza individuale, tanto sicuro di camminare dalla parte del giusto quando Hyppo (il protagonista di Un monde sans pitiè) era sicuro che non esistesse nessuna strada giusta e che comunque questa non portasse proprio da nessuna parte. Mentre Ariel porta avanti la sua prima missione, quella di corrompere un fisico nucleare che partecipa alla costruzione di una centrale da vendere ai nemici di Israele, ecco che la legittima domanda dello spettatore (che cosa vuole raccontarci, infine, Rochant?) inizia a premere per la propria necessità. Una risposta a questo interrogativo non potrà che giungere a posteriori, e tuttavia ci pare giusto azzardarla. Rochant fa un discorso sul “professionismo” e su tutti i professionismi del mondo, indicandolo come il principale responsabile di tutte le grette incomunicabilità tra gli uomini, di sentimenti taciuti e di emozioni soffocate. Attraverso uno stile volutamente spoglio e scevro di ogni enfasi dell’azione (nella discrezionalità che è tipica del cinema di spionaggio, dalla Conversazione di Coppola a Il buco di Becker), rigorosamente incollato al comportamento dei personaggi – di cui sottrae volutamente sia le cause che gli effetti –, Rochant costruisce uno spazio filmico i cui contorni freddi e angusti non sono altro che i segni della riduzione del mondo ad una cellula del Mossad. Una realtà prevista e controllata, spiata e manipolata, il cui effetto è lo svuotamento di ogni emozione vitale. Dunque, Ariel (di cui non cogliamo alcun tratto psicologico, né tantomeno qualsivoglia mutamento, anche impercettibile) si presenta da subito come un blocco monolitico intorno al quale far muovere le pedine di un intrigo che, seppur affascinante (ma ciò deve essere limitato alla sola prima parte del film), non riesce ad andar oltre a quello che resta fino alla fine il solo ed unico suo valore: funzione paradigmatica di una dedizione alla causa (sia essa patria, affetto o azienda) che sembra essere il suo approdo possibile in un mondo privo di autentico interesse dialettico. Ecco allora che l’innamoramento di Ariel per Marie-Claude, una splendida squillo di lusso, non è che uno strumento disperato, e poi perseguitato con grande determinazione, per sconfiggere una solitudine cronica, tanto più profonda poiché segnata dalla totale dedizione ad una causa disegnata scientificamente e non col cuore. E tra i pochi frammenti del film di cui ricordarci, ci sono certamente gli incontri clandestini tra il capo supremo del Mossad e il fedele Yossi, uomini vecchi d’aspetto ma addirittura morti nello spirito, vittime sacrificali di una verità che sembra vivere lontano e al di sopra di loro.
Umberto Mosca, Cineforum n 339 novEMBRE 1994

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Eric Rochant
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