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Don Giovanni


Regia:Bene Carmelo

Cast e credits:

Scenografia: Mario Masini; fotografia (16 mm, gonfiato a 35 mm): Salvatore Vendittelli; montaggio: Mauro Contini; operatore: Antonio Nardi; musica coordinata da Carmelo Bene: Georges Bizet (Carmen), Gaetano Donizetti (Don Pasquale), Wolfgang Amadeus Mozart (Don Giovanni), Modest Musorgksij (Quadri di un’esposizione), Sergej Sergeevic Prokof’ev (Aleksandr Nevskij), Giuseppe Verdi (Simon Boccanegra); interpreti: Carmelo Bene (Don Giovanni), Lydia Mancinelli (l’amante di Don Giovanni e la madre della bambina), Vittorio Bodini (il padre della bambina e il "confessore"), Gea Marotta (la bambina); la voce over è di J. Francis Lane; produzione: Carmelo Bene; origine: Italia, 1971; durata: 70'.


Trama:Il film, costato pochi milioni di lire, è girato in uno spazio interno molto angusto. Il montaggio consistette nell'elaborare una grande quantità di inquadrature, di cui diverse talmente brevi, dell'ordine di pochi fotogrammi, da essere percepibili solo a livello subliminale. Benché il film sia quasi totalemente in bianco e nero, vi sono inseriti a volte anche dei fotogrammi colorati, non coscientemente percepibili.

Critica (1):Se si eccettuano gli insensati ditirambi di "Cinema e film", Carmelo Bene non ha ricevuto in realtà l’attenzione che merita da parte dei critici, respinti dal suo forsennato solipsismo o, ma altrettanto vacuamente, portati a estrarne una lezioncina parapsicanalitica da mezza lira il divano.
Non saremo certo noi a pretendere un approfondimento di un’opera la cui astoricità ci sembra irrimediabile, ma come negare la sua eccezionalità e la sua carica in un panorama di follie cosí mediocri come quello del cinema italiano? Lo sforzo di Bene di raccontarsi, di immaginare una sua proiezione sullo schermo o sulla scena per comunicare un suo panico, un suo delirio, una sua autodistruzione, è autentico e, nel suo "estremismo", indicativo. La sua opera, teatrale prima ancora che cinematografica, assume dunque un’ esemplarità e una coerenza degne d’attenzione, di cui Don Giovanni, nella sua maggiore compiutezza e chiusura, meglio illumina il senso. In Nostra Signora dei Turchi, infatti, l’autobiografismo era più immediato e caotico, benché ricco dei piú devastanti e curiosi umori culturali di un artista che si narrava addosso un’adolescenza tipicamente piccolo borghese - cattolica - meridionale - intellettuale piena di chiesa, di cafoni, di mamme e madonne e mogli ugualmente ossessive, di fantasie dannunziane e verdiane; prima di diventare un adulto squallore di artista incompreso dagli altri e martoriato da se stesso, in cui la visione si restringeva, i significati si disinnescavano, la rappresentatività andava in vacca. In Capricci, tratto da un dramma elisabettiano già reintepretato a teatro, alla scoperta precedente del cinema, con le sue goffaggini ma anche col suo ordine, succedeva un più informe dialogo con la morte in cui la forma si negava e distruggeva coerentemente all’ambizione dell’artista. In Don Giovanni è più limpida la ricerca della revisione del mito, dell’archetipo soggiacente, oltre la contingenza della biografia e dell’aggressione. È un cammino, questo, su cui altri si sono messi, in una vaga metastoria antimarxista camuffata da chiacchiericci insistenti e da metafore autogiustificatorie. Pasolini, ad esempio, che si distingue da Bene per un approccio alla cultura in cui la cultura è piegata in continuazione ai tentennamenti di una biografia preoccupata di convalidarsi storicamente.
I film di Bene sono quasi muti, o appena borbottati. Le chiavi le cerchi chi vuole, sembra dire Bene, che io me ne frego, e miro a me, comunicando al massimo un’impressione, un sentimento, un flusso d’angoscia. Ma questa diviene fuga dalla mimesi coscientemente perpetrata e, nei suoi limiti, lucida e tragica. Bene, insomma, non cerca di farsi bello o interessante, ma solo di esprimere quello che sopra abbiamo chiamato, di scorcio, il suo panico. Don Giovanni ha un prologo e un epilogo, e ha un soggetto nell’aggiustamento del mito quale narrato da Barbey d’Aurevilly nel suo Il piú bell’amore di Don Giovanni, ma riempito di immagini astratte, per allusioni che non pretendono al rigore e all’ordine, ad altre e varie versioni, ma soprattutto nel dilemma della tentazione esercitata dalla brutta bambina religiosa sul cavaliere e nei tentativi di questi di sedurla, complice la triste madre di lei. Ora, questa bambina è essenzialmente la stessa vita e la stessa irraggiungibile e stupida purezza di essa, in cui, oltre le spiegazioni psicologiche, Bene sembra collocare il suo terrore e la sua smania dall’impossibile successo. Non solo la donna e l’ossessione dell’impotenza per un accordo e un’unità irraggiungibile, ma ben altro e di più. Attorno a questo nucleo, la stessa arte (i burattini e la retorica) o qualsiasi altro alleato per quanto demoniaco, risulta all’autore inadeguato e inefficace. La bambina di D’Aurevilly si credeva ingravidata da Don Giovanni per essersi seduta sulla sua sedia dopo di lui – e dunque in qualche modo, benché in concreto, finiva per esserne toccata, e Don Giovanni in qualche modo accolto. Ma Bene ci sembra dare al finale un altro significato, lasciando nell’ombra questa conclusione, e preferire spiegarsi, se così si può dire, attraverso una citazione borgesiana. Fallita anche la violenza nel tentativo convulso di contatto e di possesso, la lezione è sdegnosa e precisa: la distruzione dello specchio e il rifiuto del contatto, che, dice l’odiosa misantropia di Borges, sono nemici all’uomo in quanto lo riproducono. Ma Bene si serve di Borges come di tutto il resto in modo ancora ambiguo e personale; respinto al proprio io infelice e insoddisfatto del proprio egocentrismo, la sua alterezza non è arrogante soddisfazione di monade, ma pena e dolore. La sua esclusione è sentita assai più come condanna che non come arrogante disprezzo per la vita e per gli altri.
La decifrabilità riassuntiva del Don Giovanni conclude un gioco via via più drammatico. La solitudine di Bene, per quanto narcisistica, è sentimento del decadimento e desiderio di annientamento. Con tutta la sua carica visionaria – ristretta ad ambiti narrativi sempre più reiterati, ossessivi, e a pittorica e musicale esalazione dello spazio chiuso e limitato che lo mantiene in un dentro senza spiragli – Bene si distingue da altri visionari under o upperground; diversamente da un Fellini, non accetta più messaggio o ricerca di significati generali e il ricorso alla nostalgia, all’ironia, al clownismo; diversamente dai newyorkesi, non cerca colla droga il terreno dell’indistinto o delle dimensioni zen. È sincero fino al patetico; ma non possiamo che guardare a lui come a un esempio di quell’autodistruzione cosciente che i più disastrati rampolli di una piccola borghesia sostanzialmente reazionaria si scoprono addosso in una nevrosi che l’impotenza di quella comunica loro: non credono ai suoi miti "positivi" e neppure à quelli che una borghesia più riformista o più lazzarona vorrebbe propinargli. Prigionieri del loro io, rifiutano d’arrabattarsi come alcuni o di lottare coscientemente come altri per uscire da quel triste guscio, e Bene è troppo cattolicamente orgoglioso per trovare nelle comuni frustrazioni lo stimolo a una azione comune e a un dialogo, certo tragico e conflittuale, con la storia. Possiamo interpretarlo o compiangerlo, ma la sua è davvero e soltanto una strada di morte.
Goffredo Fofi, Capire il cinema, Feltrinelli, Milano, 1977

Critica (2):«La verginità di una donna è come un'orzaiolo nell'occhio del diavolo» diceva la presentazione di un vecchio film di Bergman.
La deflorazione di una vergine è punto d'onore per Don Giovanni, si diceva prima di Mozart. Con Mozart Don Giovanni assumeva per la prima volta una veste patetica e nelle sue conquiste risultava già uno sconfitto: le stesse melodie del musicista di Salisburgo racchiudevano quella tristezza post-coitum che rovesciava le prestazioni del famoso amatore preludendo alla frustrazione di un'eternità intravista e mai raggiunta. Il Don Giovanni di Carmelo Bene compie un passo decisivo e sdoppia dal mito umano del possesso relativo per assumere le dimensioni ultraterrene del possesso assoluto. Il luciferino protagonista di Bene, convenzionalmente dissoluto e crapulone, avido e sensuale è affiancato a due donne apparentemente contrapposte: una è l'amante bella matura che ha percorso ad una ad una le tappe dell'umiliazione amorosa pur di compiacerlo, con un ambiguo e simbolico vestito che coprendola inappuntabilmente di fronte ne lascia vergognosamente nude le prosperose terga; la seconda è una donna-bambina, brutta e bigotta, ma con un fascino altrettanto ambiguo: occhi e ciglia nerissimi, treccia di carbone, ombra di baffi sopra il labbro, accentuata peluria a scurire tenere braccine.
Sull'acerba vergine si posano le brame di Don Giovanni, brutalmente sicuro del proprio fascino irresistibile. Ma la ragazzina è piissima consumatrice di grani di rosario, tetragona a qualsiasi tentazione nonostante le lacrime e il martirio che le soffocanti attenzioni del bieco corruttore le procurano. Il suo compunto faccino è compreso del suo stato di sposa di Cristo e nemmeno le esortazioni ora dolci ora aspre della donna corrotta riescono a smuoverla dal suo mutismo doloroso. Senonché quando è sola, la vergine torna... bambina, i suoi occhi diventano svogliati e le sue mani giocherellano annoiate con il rosario, componendo distratte figure; salvo riprendere immediatamente la posa guardinga con rivo di lacrime al riapparire del seduttore. Questi da parte sua, tra un banchetto e l'altro, porta giocattoli e dolciumi alla fanciulla, la implora e la minaccia, le offre caramelle, gioisce e si dispera alla vista di siffatta intoccabile virtù, usa insomma inutilmente tutte le armi del mondo profano per abbattere quel tempio di sacralità. A questo punto il film ha un sussulto che lo squassa da cima a fondo. Don Giovanni si veste da Cristo, colui che tutto può, appare alla bimba in tutta la sua mistica potenza e riesce ad ottenere ciò che vuole. L'immacolata concezione è compiuta, con la distruzione dei miti. Lo specchio delle brame, che aveva sempre rimandato un'immagine insoddisfatta, si frantuma di fronte all'impossibilità di possesso ulteriore. Ma è proprio così? È proprio riuscito vincitore Don Giovanni? O all'ultimo istante l'impotenza lo ha afferrato ed inibito condannandolo in eterno a Sisifo... erotico? E se così non fosse di chi sarà il figlio nascituro? Di Lucifero o di Cristo, entrambi prediletti dal Padre, sia pure in epoche diverse? La giustificazione del possesso assume comunque crismi divini e d'ora in avanti i re e gli imperatori avranno il loro scettro e i loro domini per omonimi diritti... compreso le jus primae noctis. Certo l'alzata d'ala finale era veramente insospettabile, a meno di ricordare il sonetto dello stessa Carmelo Bene che ne rimanda anche per qualsiasi interpretazione del film (e di tutti i suoi film, aggiungerei):

No , Time, thou shalt noi boast that I do change:
Thy pyramids built up whit newer might
To me are nothing novel, nothing strange;
They are but dressing of a former sight.
Our dates are brief, and therefore we admire
What thou dosi foist upon us that is old;
And rather make them bom to our desire
Than think that we before have heard them cold (*)

Con questo Don Giovanni il cinema di Carmelo Bene non muta infatti di un solo grado la sua angolazione, ma si fa meno convulso, meno vulcanico, meno "urlato", più stringente (non nel senso di migliore, si badi bene, perché sono dell'avviso che la sua punta più alta rimanga sempre il geniale e più spontaneo Nostra Signora dei Turchi), diventa più preciso e più comprensibile anche ad una meno impegnativa visione. Questa componente più "a freddo" è la conseguenza logica dell'autocontrollo ironico al quale Bene si sottomette come autore e che gli impone di sfrondare ad ogni nuovo film le associazioni più allettanti, ma meno rigorose, le estemporaneità più brillanti ed intelligenti, ma forse dispersive per un pubblico già di per sé bombardato dai più disparati mezzi di comunicazione. Giudicare se la scelta "riduttiva" intrapresa sia la più idonea ai suoi mezzi è comunque ancora prematuro. Il suo talento resta intatto, così come la sua mostruosa bravura di interprete e di manipolatore di mezzi espressivi.
Mario Abati, Cineforum n. 104, giugno 1971

(*) No, tempo, non ti vanterai che io cambi le tue / piramidi costruite con nuova potenza. / Per me non sono niente di nuovo, niente di strano / esse sono solo rivestimenti d'una apparenza precedente / i nostri giorni sono brevi e perciò noi ammiriamo / ciò che di vecchio tu ammucchi su di noi / e piuttosto le facciamo nascere i per il nostro desiderio / che pensare di avere sentito parlare prima.

Critica (3):

Critica (4):
Carmelo Bene
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