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Opera al nero (L') - L' ouevre au noir


Regia:Delvaux Andrè

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo omonimo di Mai guerite Yourcenar; sceneggiatura: Andrè Delvaux; fotografia: Charlie Van Damme musica: Fréderic Devreese; montaggio Albert Jurgenson; scenografia: Claud Pignot, Françoise Hardy; costumi: Jacqueline Moreau; suono: Henry Morelle; interpreti: Gian Maria Volontè (Zénon), Sani Frey (il priore), Jacques Lippe (Myers; Anna Karina (Catherine), Philippe Léotard (Henry-Maximilien), Jean Bouise (Cani panus), Marie-Christine Barrault (Hilzonde), Marie-France Pisier (Martha), Maithieu Carrière (Pierre de Hamaere), Pierr Dherte (Cypnen), Johan Leysen (Rombaut Dora Van der Groen (Greete); produzione Philippe Dussart e Jean-Claude Batz, per Philippe Dussart Sarl/La Sept/Les Film A2/La Nouvelle Imagerie S.A.; distribuzione: C.G. Classic; durata: 104

Trama:Stanco e deluso, il medico filosofo e alchimista Zénon Ligre fa ritorno a Bruges, su città natale, sotto la falsa identità di Sebsstian Théus, medico di Strasburgo. È in odore di eresia e ricercato in tutta Europa Grazie all'ospitalità di un anziano collegi Zénon è indotto dagli eventi bellici a riprendere la professione, allestendo presso il convento dei Cordeliers un provvidenziale ospizio. Accusato di complicità dall'Inquisizione, preferisce rivelare la sua vera identità e sottoporsi al processo di eresia che gli viene intentato dalle autorità ecclesiastiche, con l'appoggio degli spagnoli che ormai spadroneggiano nelle Fiandre. Abbandonato anche da chi potrebbe aiutarlo, Zénon sceglie di suicidarsi.

Critica (1):Apparentemente lineare nella descrizione degli ultimi brani esistenziali di un libero pensatore nell'Europa intollerante del Cinquecento, L'opera al nero, tratto dal romanzo omonimo che Marguerite Yourcenar terminò di scrivere nei giorni caldi del Sessantotto, è in realtà l'ennesima matura testimonianza di un autore che ha sempre cercato (nel cinema con il cinema) di indagare sull'irriducibilità dei conflitti che attanagliano l'esistenza umana. Conflitti esterni (politici, linguistici, sociali) ed interni (psichici, etici, intimamente "normativi") metabolizzati dal flusso continuo - e continuamente spiazzante - di esperienze soggettive e reificate, vissute e "sognate", invocate e temute, scientificamente perseguite e, più spesso, incoscientemente subite. Di qui quella cifra (e semplificante definizione) di realismo magico che accompagna l'opera di Delvaux, essa stessa al nero, in quanto impegnata - proprio come l'alchimia di Zénon - a sciogliere e risolvere la complessa verità dell'essere nel suo divenire. Siamo dalle parti - non è una novità - di un cinema che ha i suoi precedenti in Dreyer, Murnau e Bresson; che mal si concilia con il superficiale pragmatismo e l'ostentata sicumera delle odierne esibizioni culturali (festival di Cannes compreso, dove L' opera al nero è passato senza troppi sussulti un paio di anni fa); che, tanto per dirne una, ha saputo leggere ben prima della critica lo spessore drammatico di Woody Allen, ancora piuttosto controverso all'epoca di Stardust Memories, sul set del quale Delvaux realizzo il suo To Woody Allen from Europe whit Love. E allora Zénon Ligre, epitome dell'istinto alla diversità e alla ribellione, apostolo di libertà inevitabilmente perseguitato, ma anche sintesi inconciliabile degli opposti, personaggio combattuto, risentito, stremato, tentato dall'ennesima fuga in avanti e consapevole, di essere, in realtà giunto al capolinea. E braccato dalla soldataglia spagnola che in nome di Cristo sta mettendo a fuoco l'Europa, ma sa bene che a Munster le truppe "riformate" non sono meno feroci con gli anabattisti (e lì, sul rogo, è morta sua madre). È dunque l'insistere dell'infelicità, contro cui si è invano battuto, a perseguirlo. Di ostica traspirazione cinematografica, il romanzo della Yourcenar si articola in tre grandi capitoli: "La vie errante", "La vie immobile", "La prison". D'intesa con la scrittrice, scomparsa poco prima che il film fosse ultimato, Delvaux ha scelto di lavorare sugli ultimi due, lasciando alla memoria "visiva" e all'immaginazione di Zénon il compito di rievocare per brevi flash-bach le principali tappe della vita "erratica". E dunque la vita "immobile" a cadenzare il racconto, in forma di sofferto bilancio. Delvaux non è regista da psicodrammi esibiti e la scelta di Gian Maria Volontè per il personaggio del medico alchimista (ma si parla poco di alchimia e di magia nel film...), risponde assai bene all'idea di procedere per reticenti scontrosità, irati silenzi, sguardi risentiti. Zénon è un uomo in fuga che ha dovuto rinunciare alla propria identità per sopravvivere. Se dunque il movimento, il continuo itinerare per l'Europa, supponeva il doppio e garantiva la vita, la stasi di Bruges prelude al recupero dell'identità e sottende la morte. Il tempo in un luogo dello spazio, e di conseguenza la memoria che, come sempre nel film di Delvaux, non segue il flusso nitido e ordinato dei ricordi; è piuttosto il riemergere della visione nella sua più immediata fisicità, e il sovrapporsi dell'immaginazione.
Il pensatore Zénon, non "ripensa" al passato, lo "rivede" o lo "vede" immaginando. E per questo che i lacerti della vita "erratica" irrompono senza preciso ordine cronologico. La morte del cugino Henry-Maximilien è visivamente "evocata" ben prima che Myers ne dia notizia a Zénon che peraltro la premoniva.
Accostandosi al testo della Yourcenar, Delvaux ha parlato di "prossimità morale". È una prossimità che si sforza di cercare nel linguaggio cinematografico la propria chiave di lettura al romanzo. Chi ha parlato di un Delvaux calligrafico e manieristico, dovrebbe riflettere su questo uso non convenzionale e assolutamente non lineare del flash-bach, insieme metonimico e metaforico, la rivincita dell'elemento irrazionale nel processo di focalizzazione interna che Zénon sta compiendo. Avaro di riferimenti storico-contestuali (pochi, ma del resto significativi nel rigore di una composizione figurativa per la quale non sono sprecati i nomi di Brueghel e Durer), Delvaux punta chiaramente al personaggio, al suo "ritrovarsi". E costella tale itinerario "mentale" di elementi visivo-simbolici ricorrenti: il fuoco (che lo ossessiona), l'acqua (che lo purifica), l'uovo (che racchiude il segreto della vita), le mani (che egli, come medico ha usato per preservare e difendere la vita). È un simbolismo ridotto ad elementi essenziali: dopo che Zénon, per evitare le fiamme del rogo, ha posto fine ai suoi giorni in un bagno di sangue, la mano di un bambino non può impedire la caduta dell'uovo che teneva in equilibrio... Dietro alle cose per Delvaux c'è sempre un mistero. E sul fascino di questo mistero, piuttosto che sulla sua decifrazione, che si gioca per il regista la grandezza del cinema, la riuscita di un film. Fedele a tale assunto, espresso con persuasiva suggestione venticinque anni fa in quel capolavoro che resta L'uomo dal cranio rasato, il regista ha saputo calarsi nelle zone d'ombra di Zénon l'eretico acclarandocene la complessità, non certo svelandocene i misteri. Esattamente il contrario, a ben vedere, di quel che tende a fare il cinema di questi tempi.

Roberto Ellero, Segno Cinema n. 38 maggio 1989

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