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Eden


Regia:Hansen-Løve Mia

Cast e credits:
Sceneggiatura: Mia Hansen-Løve, Sven Hansen-Løve; fotografia: Denis Lenoir; montaggio: Marion Monnier; scenografia: Anna Falguères; arredamento: Mathieu Guy; costumi: Judy Sgrewsbury; interpreti: Félix de Givry (Paul), Pauline Étienne (Louise), Vincent Macaigne (Arnaud9, Greta Gerwig (Julia), Golshifteh Farahani (Yasmin), Laura Smet (Margot, Vincent Lacoste (Thomas -Daft Punk), Arnaud Azoulay (Guy-Man-Daft Punk), Romain Kolinka (Cyril), Hugo Conzelmann (Stan), Kolinka Cyril (Roman), Zita Hanrot (Anaïs), Paul Spera (Guillaume), Ugo Bienvenu (Quentin), Sébastien Chassagne (Hervé), Laurent Cazanave (Nico), Sigrid Bouaziz (Anne-Claire), Léa Rougeron( Théodora), Olivia Ross (Estelle), Pierre-François Garel (Bastien Radio FG), Claire Tran (Midori); produzione: Cg Cinéma; distribuzione: Movies Inspired; origine: Francia, 2014; durata: 131’.

Trama:Negli anni Novanta, la musica elettronica francese si è sviluppata a un ritmo velocissimo dando vita al movimento chiamato "French touch". Ed è in quel periodo che Paul fa il suo ingresso nel mondo dei DJ: insieme al suo migliore amico, infatti, crea il duo chiamato "Cheers" che improvvisamente si fa apprezzare dal pubblico dei locali parigini. Tuttavia, l'euforia per la loro ascesa nell'Olimpo della musica sarà di breve durata...

Critica (1): È difficile cercare una singola scena simbolica in Eden, l’ultimo bellissimo film di Mia Hansen-Løve. È difficile perché in fondo, in quest’opera fluida e magmatica, tutte le scene tendono a somigliarsi, a rincorrersi, a sfidare la linea narrativa in discesa del tempo che passa e degli avvenimenti che si susseguono.
In Eden, che racconta il sincopato apparire e sparire della scena dance francese, dall’esplosione degli anni novanta alla morbida normalizzazione dell’alba del nuovo millennio, i personaggi abitano il loro tempo con ostentata svogliatezza e accorata partecipazione. Il film sembra proporre per i suoi protagonisti un perenne stato di dicotomia mentale che avviluppa i loro giorni e scioglie le loro notti. Non ci sono scene madri per questi ragazzi alla ricerca di un’esperienza condivisa più che di divertimento, di realizzazione più che di successo.
Apparentemente il film ripropone delle varianti di vita che si specchiano nella musica amata dai personaggi: una replica di qualcos’altro, un ritmo che ripete altri ritmi, una miscela sonora che accompagni corpi e anime attraverso luoghi neutrali ma finalmente sociali come erano i rave o le discoteche – tutte uguali ma tutte diverse – dove sciogliere le sere e le notti. E così è possibile trovare una chiave di lettura del film nel suo proporre un’alternanza continua di giorni e di veglie, di luce e di buio, di parole e di musica, che accompagna una trasformazione costante ma impalpabile dei protagonisti.
Eden è costruito tra interni che si moltiplicano, come una stanza degli specchi di un luna park, ed esterni che sembrano semplici luoghi di passaggio, corridoi da attraversare per raggiungere un altrove, rappresentato dall’aspetto anodino delle discoteche che sanno invece impossessarsi di un senso sociale, affettivo, emotivo, relazionale. Eden si costruisce attraverso il tempo più che nel tempo, utilizza i salti ellittici per costruire una continuità sghemba: i personaggi non cambiano, in fondo, né fisicamente né emotivamente. Semplicemente imparano a costruirsi nel ricordo e nella nostalgia, incamerando dolori e tristezze in maniera non dissimile dalla protagonista del precedente Un amore di gioventù (con qualche imprevedibile assonanza con Inside Out della Pixar).
Si muove, come nota con precisione Roberto Manassero nella sua recensione, “con l’impressionismo dei sentimenti e dei corpi”. Ma il risultato non cerca mai il minimale. Anzi, si muove con una solennità in levare che dona al racconto un andamento da epica rovesciata, come nei migliori film del modello Assayas. Illuminati dalle luci stroboscopiche di discoteche che cambiano con il passare degli anni, i personaggi di Eden imparano cosa significa essere spirito del tempo senza però cercare di cambiare, trascolorando anzi in pionieri della malinconia.
Li pervade un senso di nostalgia perenne che suggerisce che, anche vivendo intensamente il presente, ognuno di loro è lo specchio deformato di un’immagine che è già passato, ricordo, fotografia sbiadita. Proprio come le Polaroid su cui l’irrequieto Cyril vuole lasciare un segno indelebile con il proprio pennello. Un graffito per testimoniare la propria esistenza, confusa tra le note di una musica sintetica che appare sempre uguale, nonostante le infinite variazioni che definiscono la sua essenza.
Federico Pedroni, cineforum.it

Critica (2):Verso la fine di Eden, quando gli anni ’90 sono finiti e il passato è lontano, il protagonista del film, Paul, dj membro con l’amico Stan del duo Cheers, entra in un locale semideserto di Parigi. All’ingresso saluta il buttafuori e passa oltre senza problemi, mentre altri due signori dall’aria casual e anonima hanno qualche difficoltà in più: sarebbero i Daft Punk, quelli veri, Guy-Manuel e Thomas, ma il buttafuori non li riconosce. E come potrebbe altrimenti, visto che nessuno o quasi li ha mai visti?
Una volta dentro, Paul si dirige verso la pista da ballo semideserta seguito dalla macchina da presa. Osserva prima il dj, poi con lo sguardo guarda il resto del locale: la macchina si muove con un carrello circolare da destra verso sinistra e riprende il vuoto. È un momento di sospensione, di paradossale silenzio nonostante la musica, in cui il movimento ricalca in maniera simbolica il senso stesso del film: l’assenza su cui si fonda la musica elettronica. La stessa assenza, se non si fosse capito, da cui nasce il successo dei Daft Punk, autori misteriosi di una musica che non appartiene loro, mutuata da altre fonti, cantata da altri, aliena a se stessa.
La musica elettronica è così: musica rifratta, ciò che resta di un suono in assenza di strumentazione, oltre la pratica artigianale, nel segno del riutilizzo, del filtro delle frequenze, della campionatura. Nell’unicità del dj-set, della serata in discoteca, spettacolo artefatto e performance unica, la musica elettronica trova la propria malinconica euforia, è un tiepido e sobrio consumarsi.
Allo stesso modo, le vite dei protagonisti di Eden, film dedicato alla scena french house degli anni ’90, sono malinconiche ed euforiche. In un racconto che parte dal 1992 e prosegue oltre gli anni Duemila, il tempo sembra sempre colto nella sua fugacità e attualità, declinato in un continuo presente, con gli attimi e i ricordi di ciascun personaggio che paiono campionati anch’essi, restituiti con la stessa distanza e la stessa appassionata freddezza con cui si fa musica dietro la consolle di un locale.
Mia Hansen-Løve, che negli anni ’90 era una ragazzina che recitava in Fin août, début septembre di Assayas, il suo quarto film l’ha scritto insieme al fratello Sven, ex dj e più grande di lei di qualche anno, ripercorrendo la loro comune biografia e cercando di cogliere il senso di un periodo storico e di un clima musicale che non hanno nulla di ruggente, nulla di mitico o di perduto, ma sono semplicemente anni di vita vissuta fino in fondo e assaporata nella sua essenza. Inevitabilmente, dunque, Eden è un film sulla fine della storia che si percepiva nel mondo degli anni ’90, e pur senza essere un racconto a mosaico – nonostante i tanti personaggi che si incrociano fra Parigi, New York e Chicago, in una lunga stagione di successi ed eccessi, di amori e di droghe – costruisce la Storia attraverso la molteplicità delle storie, con l’impressionismo dei sentimenti e dei corpi tipico del cinema francese (con il modello di Assayas ben in mente) che coglie la frammentarietà e l’unicità delle parole e dei gesti dei personaggi.
Il racconto procede a strappi, toglie il superfluo per lasciare l’essenziale, vive della propria infinitesima bellezza. A un certo punto, un uccello passa in volo in forma animata e stilizzata, come un’apparizione fugace. E come molti altri momenti del film (tra cui una bellissima scena al PS1 del MoMA di New York, con un dj set affollato e selvaggio, ma raccontato come un momento di calma estasi del protagonista) racchiude la bellezza di un’idea in tutta la sua rapidità, la guarda passare e la lascia scivolare via.
A contare, in fondo, in un dj set come nella vita, sono la ritmica interiore, sono i battiti, gli attimi, e tutto ciò che puoi costruirci sopra. Vivere significa non pensare, e poi ricordare. E ciò resta della vita vissuta è sempre qualcosa di perduto e insieme qualcosa di recuperato. È un frammento, come un volto, una parola, un suono, che messo insieme a tanti altri campiona un’idea di passato.
Roberto Manassero, cineforum.it

Critica (3):

Critica (4):
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