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Hotel paura


Regia:De Maria Renato

Cast e credits:
Soggetto
: Silvia Colombini, Alberto Sandrini; sceneggiatura: Claudio Lizza, Renato De Maria; fotografia: Gianfilippo Corticelli; musica: Avion Travel; montaggio: Mirco Garrone; scenografia: Giada Calabria; costumi: Cristina Francioni; suono: Mario Jaquone; interpreti: Sergio Castellitto (Carlo), Iaia Forte (Liliana), Isabella Ferrari (Lucia), Roberto De Francesco (Ernesto), Matteo Urzia (Paolo), Alessandra Vanzi (Cenerentola), Francesco Paolantoni (Pasquale), Alfonso Santagata (Giuseppe), Victor Cavallo (Antonio); produzione: Giorgio Leopardi e Nella Banfi, per Union P.N./Angel Film/Angel Films; distribuzione: Uip; origine: Italia/Francia, 1996; durata: 102’.

Trama:A causa di un improvviso licenziamento, il direttore amministrativo di un'azienda, Carlo Ruggeri, si ritrova disoccupato. Per di più è alle prese con uno sfratto e le cose in famiglia non vanno molto bene. La moglie e i figli si affrettano a scaricarlo e per l'uomo trovare un altro lavoro diventa un'impresa disperata. Comincia così per Carlo una discesa nell'inferno dei senzatetto che affollano le stazioni e verso alberghetti di infimo ordine.

Critica (1):Il dirigente d’azienda milanese Carlo Ruggeri si trova dall’oggi al domani in mezzo alla strada: licenziato all’improvviso, prima ancora di poter reagire viene sfrattato con una moglie e un figlio a carico. Dopo varie traversie che dimostrano l’impossibilità o l’incapacità di trovare un nuovo lavoro il pover’uomo, ormai abbandonato dalla moglie e dal figlio, si ritrova a dormire sotto le stelle non prima di essere derubato della giacca e del portafogli. In questa situazione di estrema precarietà Carlo ha modo tuttavia di conoscere un mondo sommerso e nascosto troppo spesso alla società consumistica, quella dei reietti e degli umili che campano alla giornata.
Cinema di rimandi, di citazioni nascoste, di inquadrature piene, troppo piene che fatalmente sottendono e (pre)annunciano una povertà estrema, un vuoto disinibito e catartico. La trama stessa è fin troppo semplice ed esemplificativa per non apparire reale : manager quarantenne perde improvvisamente lavoro, casa e famiglia. Il benessere appare tutto nel suo squallore, riempie l’intera inquadratura: telefonini, sterei, computer portatili, Alfa Romeo luccicante, televisori, videoregistratori, l’Harry Lloyd di Sergio Castellitto diventano più espressivi degli stessi interpreti. Ciò che rende questi oggetti corporei e così malsanamente vitali, ciò che li rende così minacciosamente protagonisti è il piano sequenza pronto a registrare ogni minimo dettaglio, ad ambientare lo spettatore più attento a un disagio solo apparentemente sociale illuminato da una luce al neon da obitorio, quest’ultima poi riflessa nei luccichii di una lussuosa carrozzeria di cronenberghiana memoria. Questa esposizione della merce consumistica oltre a trasportarci con la memoria agli effimeri anni ’80 visti e interpretati dai vari Vanzina e Oldoini (rispettivamente Yuppies - I giovani di successo e Yuppies 2) c’induce alla riflessione sul linguaggio filmico di Michelangelo Antonioni : dalle nude e deserte rocce de L’avventura, all’oggetto simulacro e pop del pezzo di chitarra elettrica in Blow-up, o al frigorifero di Zabriskie Point, senza per questo dimenticare le opprimenti vetrate delle ville lussuose in Identificazione di una donna. Tuttavia questa indigestione di corpi, di oggetti, di primi piani profetizza la futura perdita da parte del protagonista di tutto il suo microcosmo.
Hotel Paura gioca volentieri su questi pieni e questi vuoti, sulla iper verbosità e sui frequenti rumori (il battere sulla tastiera del computer, lo zapping televisivo) per poi spegnersi improvvisamente nel silenzio, nell’assenza, in una monotonia di colori che va dal bianco (la stanza ormai spoglia di quadri e lampadari) al grigio della stazione di Milano, al nero degli occhi senza più speranza di Castellito e ai binari morti e abbandonati. Renato De Maria non offre certamente un passaggio morbido dal totale accumulo alla completa sottrazione, quasi a voler evidenziare il suo piano sequenza visto e utilizzato come bisturi pronto a vivisezionare freddamente una altrettanto e (in)significante odissea kafkiana di un uomo qualunque.
Cinema più di corpi che di idee, più d’immagine che d’inutili e ripetute retoriche, Hotel Paura mostra non degli interpreti o degli attori ma dei simulacri semantici riciclati, fotocopiati e serigrafati nel modo e nello stile di Warhol, a tratti rovesciati e ribaltati nelle loro simbologie più appariscenti e popolari : Castellitto recita Castellitto del più tipico e ritrito sceneggiato televisivo e la sua mono espressione o la sua smorfia assume la stessa valenza semantica di topos del sorriso di Marilyn Monroe ripetuto infinite volte (come insegna James Ballard nel suo bellissimo La mostra delle atrocità, Bompiani, 1995). Il viso scheletrico, sciupato, dark-industrial oriented d’ Isabella Ferrari evidenzia la sua presa di distanza dalle abbronzature dei vari Sapore di mare. Iaia Forte cerca di non riciclare se stessa, facendosi inglobare dagli invadenti primi piani dell’(anti?)divo Castellitto, allontanando e uccidendo l’immagine divistica e di successo ottenuta in coppia con il regista partenopeo Pappi Corsicato.
Lo stesso titolo Hotel Paura è sfuggente, ambiguo, paradossale, contraddittorio : Hotel è un nome che ci fa immaginare sicurezza, vacanza, benessere. Tuttavia avvicinato e unito al nome Paura assume connotazioni ambigue, trasversali, allucinate come le metamorfosi antropomorfiche lynchiane in bianco e nero di Eraserhead o gli incubi in grand’angolo di Fuoco cammina con me. Questo luogo spesso citato nelle lunghe sequenze del film non compare se non invisibilmente in un illusorio controcampo, in quella attesa e disattesa provate nel vano tentativo di scrutare il raggio verde di Eric Rohmer. Ma Renato De Maria non è Eric Rohmer e Hotel Paura rimane comunque un ottimo saggio di rimandi, contaminazioni, cambi stilistici repentini e scioccanti. Basta dunque una veloce panoramica per ricondurci in un enorme baraccone frutto delle visioni pittoriche allucinate di un Hieronymus Bosch, che ricorda da vicino in chiave di citazionismo pop l’arena primordiale e post-atomica di Mad Max - Oltre la sfera del tuono, ma anche il barocchismo pomposo deviato e deviante di Ken Russel. In questo scarto De Maria ci trasporta in una nuova contraddizione nell’altrettanto improvviso incendio del luogo suddetto. E stavolta non più oggetti, né i monocolori o i muri disadorni, ma solo un enorme fuoco catartico in grado di occupare tutto lo spazio inquadrato e interagire con un nuovo inizio, o la fine più volte sospirata, attesa, e spesso vanificata nei (falsi) silenzi o nella vivisezione disarmante dei prodotti di consumo della società occidentale.
Domenico Monetti, Segnocinema n. 85, maggio-giugno 1997

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
De Maria
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