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Tutti a casa


Regia:Comencini Luigi

Cast e credits:

Soggetto: Age e Scarpelli; sceneggiatura: Luigi Comencini, Age e Scarpelli, Marcello Fondato; dialoghi: Age e Scarpelli; fotografia: Carlo Carlini; scenografia: Carlo Egidi, Riccardo Domenici; costumi: Ugo Pericoli; musica: Francesco Angelo Lavagnino; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Alberto Sordi (sottotenente Innocenzi), Eduardo De Filippo (il padre di Innocenzi), Serge Reggiani (soldato Ceccarelli), Martin Balsam (sergente Fornaciari), Nino Castelnuovo (artigliere Codegato), Claudio Gora (il colonnello), Mino Doro (maggiore Nocella), Mario Feliciani (capitano Passerini), Silla Bettini (tenente Di Fazio), Alex Nicol (il rifugiato americano), Carla Gravina (Silvia Modena), Didi Perego (Caterina Brisigoni), Iole Mauri (Maria Fornaciari), Mac Ronay (Evaristo Brisigoni), Vincenzo Musolino (primo fascista), Mario Frera (secondo fascista), Luisina Conti, Armando Zanon; produzione: Dino De Laurentiis per Dino De Laurentiis Cinematografica; direttore di produzione: Alfredo De Laurentiis; origine :Italia, 1960; durata: 120'.


Trama:È una mattina chiara, apparentemente senza storia quella in cui il sottotenente Alberto Innocenzi apprende insieme ai suoi solda­ti e insieme agli “amici” tedeschi, che il governo del suo paese ha firmato un armistizio con gli alleati e che i nazisti sono divenuti i nemici. È la mattina dell’8 settembre 1943 quando su tutte le bocche corre la stessa voce: “La guerra è finita, tutti a casa!”. Preso alla sprovvista, incapace di comandare, Innocenzi si fa scudo della sua divisa e resta in attesa di ordini che non verranno mai. Poi, sempre più incerto, si mette alla testa del suo piccolo gruppo di sbandati (a cui si è aggiunto il petulante geniere Ceccarelli) e li guida verso sud, verso casa (la sua). Mille episodi e mille pericoli sono disseminati lungo il percor­so: un soldato viene ucciso dai tedeschi mentre cerca di salvare una ragazza ebrea sprovvista di documenti; Innocenzi cerca di tagliare la corda accordandosi con una donna che fa la borsa nera, ma fallisce sotto lo sguardo di rimprovero di Ceccarelli. Un altro soldato viene arrestato, appena giunto a casa, perché la moglie nasconde un americano. Ridotto ai soli Innocenzi e Cecca­relli, il manipolo arriva alle porte di Roma. Alberto è arrivato a casa, vorrebbe fermarsi, ma l’incontro con il padre lo convince di essere ormai davvero uno sbandato. Il padre infatti non ha compreso che i tempi sono cambiati, lo vorrebbe arruolato nelle milizie della Repubblica Sociale. L’ex ufficiale allora prosegue con Ceccarelli per Napoli dove giunge proprio quando scoppia l’insurrezione. Sono le epiche “quattro giornate” che riportano, loro malgrado, i due in prima linea. Adesso però Ceccarelli sa per che cosa combattere: imbraccia un fucile e spara sui tede­schi. Ferito a morte, spira nelle braccia di Innocenzi e proprio quest’ultimo gesto di coraggio, smuove qualcosa nel carattere pavido e insicuro di Alberto. Di nuovo ufficiale, di nuovo legato ad una causa, Innocenzi è adesso un combattente della Resistenza.

Critica (1):Con il capitolo di Tutti a casa Comencini ottiene, nel 1960, il suo definitivo (ma spesso ridiscusso) patentino di “autore” del cinema italiano. Non è certo il miliardo abbondante d’incasso a convincere i critici. In questo momento il regista è ancora isolato, assistito solo da una produzione solida come quella di De Laurentiis e da una coppia affiatatissima di collaboratori (Age e Scarpelli, rinforzati da Marcello Fondato). La ragione di tanto plauso, sia pure frenato da eccezioni sulla disomogeneità e sull’irregolarità del risultato, risiede per un verso nella conclamata intenzione didattica del film (con gioia dei critici della sinistra) e per l’altro in una fusione di comico, drammatico, grottesco e patetico che rievoca i giorni belli di Roma città aperta. Insomma, si tratta paradossalmente di motivazioni “di retroguardia”, quando invece, visto oggi, Tutti a casa è una delle opere più moderne e compatte dell’autore e, per diretta ammissione, il suo capolavoro.
In nessun punto del racconto traspare l’intenzione dell’opera esemplare, archetipa; c’è invece la voglia di trasformare il meglio del film “di genere” in un capitolo irripetibile, così come l’8 settembre di cui si parla, fu una pagina come tante nella storia degli anni dell’Italia fascista, ma al contempo assolutamente eccezionale e irripetibile. Tanto da poter essere forse raccontata, almeno in alcuni squarci, ma sicuramente non compresa in tutte le sue implicazioni dai protagonisti che la vissero in prima persona. Questa scelta del punto di vista per­mette di dare continuamente sfondo e profondità alla peripezie del sottotenente Innocenzi, senza rinunciare alla comicità del suo carattere e delle sue azioni, senza mai rischiare il mac­chiettismo. Perché uno schema compositivo tanto armonioso venne sostanzialmente sottovalutato da coloro che poi si inebriarono di fronte a riuscite anche più sommarie come Incompreso o L’ingorgo? Secondo Comencini, il motivo va cercato nello scarso interesse che all’estero suscitano le pagine più recenti e confu­se della storia italiana. Ma a nostro avviso c’è di più: sotto le mentite spoglie di una commedia, il film è sostanzialmente un racconto a tesi; e la sua tesi non è il problema ideologico che coinvolge sempre più direttamente il borghese in uniforme Inno­cenzi, bensì quello della scelta che ciascuno è chiamato a fare almeno una volta nella sua vita. La progressiva, quasi inconscia necessità dello scegliere, come ben sottolinea Gili nel suo saggio, ha la scansione umanissima del viaggio. E di un viaggio tutto particolare si tratta quello che conduce i due soldati dal nord al sud di un’Italia ormai mutilata, disfatta, sconvolta da ciò che è ormai un problema collettivo: la scelta che governanti e ufficiali hanno demandato all’istinto e alla coscienza del singo­lo. In questa chiave va forse riletto persino il finale, da alcuni – compreso lo stesso Sordi –indicato come anello debole della catena narrativa perché troppo consolatorio, didattico, patriot­tico. Infatti, il personaggio di Sordi compie in questo momento un passo determinante per la sua vita così come, da un punto di vista generale, lo compie l’Italia in quel fatidico settembre (il film racconta esattamente un’odissea di venti giorni e il cartello che appare in sovrimpressione nella versione integrale, mentre è assente da quella di distribuzione, ricorda appunto “Napoli 28 settembre 1943”). Ora Innocenzi passa in fondo da un sistema di certezze ad un altro; ha dunque torto l’attore quando afferma: “Io c’ho altre idee, io sono uno straccione, sono distrutto, il mio amico è morto e non mi accorgo nemmeno che arrivano gli americani finché uno non mi butta una sigaretta e mi dice “toh, paisà!”. Ma è proprio la somma di singole incertezze e di tanti momenti in cui il coraggio ed il cuore superano la ragione e fare la coscienza di un’Italia diversa, capace di scegliere proprio perché accetta l’umana fragilità degli individui. Allora è dal tema della scelta, unito ad un costante “understatement” capace di neutralizzare ogni vizio di retorica, che nasce il capolavoro: fotografia specchiata degli italiani, ma anche paradigma di una questione morale profonda, incisa nella storia delle persone e di un popolo. Come si vede, tutti i temi cari a Comencini (la ten­sione morale, l’osservazione dell’Italia di ieri per capire i vizi di quella di oggi, la ricerca dei mezzi toni tra melodramma e farsa, tra comico e patetico, la fusione di una precisa conce­zione formale/strutturale e l’immediatezza del documentarismo) sono qui racchiusi in un equilibrio forse irripetibile. Va ricor­dato, come scrive Giuliano Montaldo, che “c’è stato in quegli anni, a partire del Generale della Rovere, un ritorno ai temi della Resistenza dopo un periodo di silenzio; un ritorno dovuto a tanti esordi e conferme coincidenti. Eravamo per età tutti “figli della Resistenza”. Chiaro che l’abbiamo fatto dicendo “lo faccio con un altro taglio”, oppure “lo faccio perché mi va” o rileggen­do Bassani o ripensando ai campi di concentramento. Non è stato un fenomeno di emulazione, ma un voler riproporre un discorso che il cinema degli anni Cinquanta, con l’eccezione di poche cose, era stato costretto ad abbandonare dal contesto politico e dalle sue pressioni”. Chiaro che Comencini rientra in questo afflato generazionale, insieme al Gianni Puccini del Carro armato dell’8 settembre, al Florestano Vancini di La lunga notte del ’43, al Valerio Zurlini di Estate violenta, anche se il suo modo di guardare a persone e situazioni rimanda piuttosto al Dino Risi di Una vita difficile che affronta il presente nella chiave del passato. Comencini subisce, forse più violentemente di altri, rinnovate pressioni politiche come è ben dimostrato dal contra­stato invito a Mosca (c’è l’episodio di Pajetta che viene coin­volto in prima persona perché il film sia invitato al Festival dove, in circostanze non del tutto chiarite, ottiene solo l’estemporanea medaglia della giuria dopo un’autentica ovazione in sala) e dal rifiuto del ministro Andreotti di mettere a dispo­sizione due carri armati per le riprese (furono ricostruiti in compensato. Di come Tutti a casa sia in fondo un epico racconto morale è testimone lo stesso regista quando dichiara: “L’8 set­tembre fu veramente un tradimento per il popolo italiano. La gente fu abbandonata a se stessa ed era questo che volevo descri­vere”.
Giorgio Gosetti, Comencini, Il Castorocinema, 1988

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Luigi Comencini
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