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Pietà - Pieta


Regia:Ki-Duk Kim

Cast e credits:
Sceneggiatura, soggetto, montaggio: Kim Ki-duk; fotografia: Jo Yeong-jik; scenografia: Jean Sung-ho; costumi: Ji Ji-yeon; musiche: Park In-young; interpreti: Lee Jung-Jin (Kang-Do), Jo Min-Su (Donna misteriosa); produzione: Kim Soon-mo (produttore), Kim Ki-duk (produttore esecutivo), Kim Woo-Taek (produttore esecutivo); origine: Corea del Sud, 2012; durata: 104’.

Trama:Al soldo di un potente strozzino, Gang-do è un uomo crudele e violento che si occupa di recupero crediti e che non esita a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di avere i soldi che gli son dovuti. Un giorno, all'improvvisio, una donna gli si para di fronte, sostenendo di essere sua madre e chiedendogli perdono per l'averlo abbandonato. Dapprima sospettoso, l'uomo si convincerà della sincerità della donna: ma questa porta con sé un grande e doloroso segreto.

Critica (1):I premi servono a fare polemiche piuttosto che a segnalare un artista. Ma sarebbe bello se il meritatissimo Leone d’Oro assegnato dalla giuria di Michael Mann a Pietà riuscisse ad avvicinare il pubblico a uno dei più originali artisti della scena mondiale. Chi è Kim Ki-duk? Una specie di Van Gogh coreano che ha scelto con la propria biografia e con l’arte di rompere tutte le convenzioni, nell’urgenza di esprimere sentimenti assoluti. Nella vita ha fatto l’operaio e il pescatore, il marine dell’esercito coreano e il predicatore, il pittore di strada a Parigi e i l monaco su un’isola. Alla premiazione di Venezia ha cantato un’aria popolare e salutato col pugno chiuso. Fra tanti anticonformisti di maniera e per interesse, con conto in banca milionario e lo staff di esperti di marketing alle spalle, Kim Ki-duk è un vero artista in lotta contro un sistema dove conta soltanto il danaro.
Pietà è una fiaba oscura contro il capitalismo girata con pochi soldi e senza scomodare grandi scenari planetari, complotti o trame della finanza di Wall Street. L’azione si svolge nella vecchia periferia operaia di Seul, ormai stravolta dai grattacieli delle corporations, e questo è già racconto. Un uomo giovane, bello, con un giubbotto di pelle griffato, ogni mattina si alza e va a riscuotere i debiti per conto di un usuraio mafioso. È spietato, algido, capace di mutilare o uccidere chi non paga i suoi padroni. Un giorno per strada è inseguito da una donna di mezza età, ancora bella, che dice di essere sua madre. La madre che l’ha abbandonato trent’anni prima. La prima reazione è furibonda, ma la donna riuscirà ad aprire il cuore del giovane e a cambiargli il sentimento verso gli altri. Il resto della storia è giusto lasciarla alla meraviglia dello spettatore, ricca com’è di colpi di scena, forse un po’ troppi. È questo forse l’unico difetto di un film magnifico, inesorabile, che concentra in un tempo breve di racconto, cento minuti, la rivoluzione di un’anima. Un altro passo del percorso unico di questo regista che in passato ha regalato alcuni capolavori, amati non soltanto dalla critica, come Ferro 3, L’isola, Bad Guy, Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera, oltre allo straordinario documentario sulla propria esistenza da eremita Arirang, che porta lo stesso titolo della canzone intonata a Venezia.
Le cronache si sono soffermate a lungo sulle scene di violenza, aggressioni e stupri. In genere, quando vedo questa roba al cinema, mi alzo ed esco all’aria. Ma in Kim Ki-duk la crudeltà non è mai gratuita, tanto meno compiaciuta. È il tratto nero intorno alle figure di Van Gogh. Serve a far splendere meglio il colore delle passioni. Alla fine ciò che resta nella memoria dello spettatore non è il guizzo di sangue, ma la pietà di una madre, il bisogno disperato di amore di un uomo. Levando lo sguardo, un panorama di umanità asservita a un sistema disumano.
Gli attori protagonisti, Lee Jong-jin e Cho Min-soo, sconosciuti da noi, ma celebri in Corea, sono straordinari. Il terzo protagonista è la periferia di Seul, lo stesso quartiere operaio dove negli anni Cinquanta era emigrata la famiglia del regista. Un paesaggio fisico e umano universale. Non si chiamavano del resto “coree” i nostri ghetti per immigrati del Sud degli anni Cinquanta?
Curzio Maltese, la Repubblica, 14/09/2012

Critica (2):[...] Autore del film che, finora, ha ottenuto gli applausi più unanimi e convinti della rassegna, il coreano Kim Ki-duk, classe 1960, premiatissimo, ovunque nel mondo, dai tempi del debutto con Crocodile, nel 1996, guida da ieri la classifica del toto-Leone. Per il suo dramma al veleno sulla società contemporanea malata di cupidigia, un premio, anche importante, sembra praticamente scontato. Impeccabili gli interpreti, la finta madre Cho Min-soo e lo strozzino senza cuore Kang-do. Perfetta l’ambientazione, nello storico quartiere Cheonggyecheon di Seul, ricostruito sul filo delle memorie dell’autore, tra vecchi laboratori e depositi abbandonati di lamiere, frese e presse. Magnifiche le immagini di levigata violenza, che descrivono lo scontro tra una
«Madonna dai capelli neri» e «un uomo che è come il diavolo incarnato».
    I soldi sono il motore della sua storia, perché ha scelto proprio questo soggetto?
«Nella società capitalista, il denaro mette inevitabilmente alla prova le persone. La convinzione diffusa è che sia l’unico strumento in grado di risolvere i problemi, la verità è che il denaro, invece, crea la maggior parte degli episodi spiacevoli che ci accadono. Mi interessava, attraverso la mia storia, mostrare il vero volto del denaro, della disponibilità economica, che non è condannabile in sé ma per l’uso perverso che se ne fa».
    La sua visione è fortemente pessimista, il motore di tutto è il desiderio di vendetta di una madre che ha assistito al suicidio del figlio. Non vede possibilità di salvezza?
«Il denaro continuerà ancora per molto a porci tristi domande, finireme per apparire agli occhi degli altri come una moneta, e per frantumarci sull’asfalto... Faccio film che parlano dell’essenza umana che stiamo perdendo o che abbiamo già perso, credo che la salvezza passi attraverso il recupero di valori dimenticati».
    Il film contiene scene di terribile violenza. Perché le ha ritenute necessarie?
«Credo che, per poter spiegare l’oscurità, bisogna mostrare la luce. La violenza e la crudeltà sono il nero, servono per far risaltare il bianco».
    “Pietà” mostra un’ispirazione di tipo cattolico, è una scelta che riflette le sue
    convinzioni religiose?
«Non ho nessuna prevenzione nei confronti di nessuna religione. Ho girato film buddisti, e anche protestanti Questo è stato definito cattolico, io posso solo dire di avere una mia convinzione religiosa, ma anche di non volere esprimerla pubblicamente».
    Il quartiere in cui è ambientata la vicenda del film è importante come lo sono i personaggi. Può spiegare perché?
È il luogo dove è nata e si è sviluppata l’industria tecnologica coreana, grazie a quella zona la Corea è famosa in tutto il mondo per i telefonini, le tv e tutte le altre cose che produce. Ci ho vissuto dai 15 ai 20 anni, e ci ho lavorato facendo l’operaio. Oggi quella parte della città sta scomparendo, nell’arco di pochi anni verrà spazzata via e occupata dai grattacieli che sono il simbolo del capitalismo coreano. Nei miei film, i luoghi hanno una grande importanza, non solo storica, ma anche filologica».
    In che senso?
«Direi che in Pietà, lo spazio dove si muovono i protagonisti è analogico, mentre loro sono digitali, perchè non hanno né radici, nè memoria, agiscono solo in base alla spinta dei soldi».
    Il manifesto pubblicitario del film s’ispira alla Pietà di Michelangelo. Si vede la madre con lo strozzino tra le braccia. Una scena che però non compare nella versione definitiva della pellicola. Come mai?
«Era un riferimento fin troppo esplicito, l’ho trovato ovvio e ho deciso di eliminarlo».
Fulvia Caprara, La Stampa, 05/09/2012

Critica (3):

Critica (4):
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