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Anima di un uomo (L') - Soul Of A Man (The)

Regia:Wenders Wim
Cast e credits:
Soggetto: Wim Wenders; sceneggiatura: Wim Wenders; fotografia: Lisa Rinzler; montaggio: Mathilde Bonnefoy; interpreti: Chris Thomas King (Blind Willie Johnson), Keith B. Brown (Skip James), J.B. Lenoir, Skip James, Cream, John Mayall; produzione: Alex Gibney e Margaret Bodde per Vulcan Productions - Road Movies - Cappa Productions - Jigsaw Productions; distribuzione: Mikado; origine: Germania - Usa, 2002; durata: 60'.
Critica (1):Più che un documentario come Buena Vista Social Club, dove Wim Wenders si ritraeva lasciando la scena ai vecchi maestri cubani, L'anima di un uomo è un poema in immagini: un canto d'amore per la musica da parte del regista tedesco, nella cui opera la musica va acquistando un'importanza sempre maggiore. Tutto è nato da un'idea di Martin Scorsese, che ha deciso di consacrare al blues sei film affidandoli a registi diversi. La scelta di Wenders è caduta su due bluesmen mitici (ma semisconosciuti), Skip James, che passò al gospel e - già malato di cancro - fu tra i protagonisti dei grandi concerti di Newport nel '64 e '65, e il geniale J.B. Lenoir, morto prematuramente in un incidente d'auto. Poi ne ha aggiunto un terzo, il pioniere Blind Willie Johnson, cantante cieco vissuto in perfetta povertà che nel film svolge la funzione di narratore. Wim mescola sapientemente materiali di repertorio ripuliti e rimasterizzati con ricostruzioni in bianco e nero, interpretate da attori e che simulano la fotografia d'epoca. Racconta l'arte dei protagonisti assieme alla loro personale vicenda umana; sottolineandone, al caso, il messaggio pacifista e antirazzista. Evita le interviste, che fanno troppo documentario, ma si preoccupa di toccare il pubblico più vasto inserendo brani in cui le canzoni di James e Lenoir sono riadattate da musicisti contemporanei come John Mayall, Lou Reed, Los Lobos, Nick Cave, Marc Ribot: anche per marcare l'evoluzione del blues nel jazz e nel rock, fino al rap, mostrando come esso conservi intatta la sua forza attraverso gli inevitabili cambiamenti. L'anima di un uomo è il risultato di un'idea molto nitida, che ne fa qualcosa di diverso da un documentario, di opposto a un videoclip: quella che il blues, pur trattando di problemi concreti e quotidiani, sia una musica metafisica e che la sua essenza sia la speranza - di una vita migliore sulla Terra e oltre - ossia la continua opposizione tra ciò che è ciò che sarà, o dovrebbe essere. Unica nota stonata la cornice - troppo "soprannaturale" - della sonda Voyager che erra per lo spazio portando in volo una canzone di Blind Willie, "Dark Was the Night", da qui all'eternità. Però film come questo meritano tutta l'attenzione e la fiducia dello spettatore; che, al dilà di ogni attesa, non solo ascolterà splendida musica ma si sentirà anche raccontare storie bellissime, come e più che nel cinema di fiction.
Roberto Nepoti, La Repubblica, 7/6/2003
Critica (2):(...) Difficile mettere insieme pezzi di vita di uomini così diversi e lontani nel tempo, eppure Wenders è riuscito, attraverso artifici e pretesti narrativi, a raccontare in modo lineare la vita di tre bluesmen (scelti perché a parte il mito, sono grandi passioni del regista), e creando un film che è a metà tra la fiction e il documentario. Il film si presenta infatti diviso in due parti, diverse per stile e temporalità: la prima parte, forse più monotona, è in bianco e nero e racconta alla fine degli anni '20 e agli inizi del '30 la vita sfortunata di Blind Willie Johnson insieme agli esordi del secondo bluesman, Skip James. La seconda parte è invece più vivace, a colori, ambientata negli anni '60, e racconta insieme al ritorno sulla scena dell'ormai sessantenne Skip James, la vita del terzo mito del Blues, J.B. Lenoir. Gli sforzi del regista per dare al film uno stile documentaristico non sono pochi. Infatti, nonostante l'accordo con Scorsese di girare tutti i film della serie con la videocamera in digitale, Wenders, per raccontare i lontani anni '30, si serve di un mezzo diverso dal digitale (che utilizza comunque per il resto del film): una macchina da presa a manovella che risale agli anni '20, riuscendo così a ricreare perfettamente lo spirito di quegli anni e grazie alla sua irregolarità a dare l'illusione, nonostante si sia servito di attori, di mostrare delle immagini da repertorio. Per la vita di J.B. Lenoir, il regista è più fortunato perché può utilizzare due pellicole originali girate da due studenti cinefili ai tempi del musicista, realizzando questa volta un vero documentario in cui i filmati risultano essere la vera ossatura della seconda parte del film. Una forte attenzione allo stile quindi a cui si accompagna però anche un grande sforzo narrativo. Geniale l'idea di mettere come cornice narrativa il Voyager inviato dalla Nasa nello spazio nel '77 contenente i simboli del XX secolo, tra cui, per l'appunto, la canzone "The soul of man" di Blind Willie Johnson e altrettanto geniale l'idea di far fare a quest'ultimo il narratore dell'intera storia. Espedienti narrativi riusciti che rendono coeso il testo filmico, così difficile da raccontare per la diversità dei protagonisti. Diversi, ma con molte similitudini, come ha affermato lo stesso regista, visto che si tratta di persone comunque sfortunate, povere e morte senza gloria e in più accomunate dalla stessa passione per la musica blues. È infatti la musica in realtà ad essere la vera protagonista del film. Per questo, riescono perfettamente le interruzioni con alcuni cantanti contemporanei (tra cui un magnifico Lou Reed) che inframezzano le vite dei musicisti cantando le loro vecchie canzoni: alleggeriscono la trama narrativa, vivacizzandola, ed essendo assolutamente pertinenti. E per questo riesce altrettanto bene la trattazione dei temi cardine del Blues: l'amore di un uomo per una donna, la miseria, la fiducia in un futuro migliore, l'invocazione a Dio, e altri temi più generali che emergono da interviste e testimonianze, come il presunto conflitto tra il gospel e il blues, il sottile confine tra sacro e profano, e anche canzoni di impegno civile come la situazione della donna negli anni '60 e l'apartheid. Insomma, la voce calda, insieme alle note che scorrono sui tasti di un pianoforte o su corde di chitarra, ti entrano veramente nell'anima, e questo è la cosa più importante che il regista ha voluto trasmettere.
Marta Fresolone, centraldocinema.it
Critica (3):
Critica (4):
Wim Wenders
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