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Mystery Train - Mystery Train


Regia:Jarmusch Jim

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Jim Jarmusch; fotografia: Robby Müller; montaggio: Melody London; scenografia: Dan Bishop; musica: John Lurie; costumi: Carol Wood; interpreti: Masatoshi Nagase (Jun), Youki Kudoh (Mitsuko), Screamin’ Jay Hawkins (portiere di notte), Cinque Lee (il cameriere), Rufus Thomas (l’uomo della stazione), Jodie Markell (la guida degli studi Sun), Beverly Prye (la prostituta), Nicoletta Braschi (Luisa), Elizabeth Bracco (Dee Dee), Sy Richardson (il giornalaio), Tom Noonan (l’uomo del ristorante), Stephen Jones (il fantasma), Lowell Roberts (Lester), Sara Driver (l’impiegata dell’aeroporto), Joe Strummer (Johnny), Rick Aviles (Will Robinson), Tom Waits (voce del DJ), Steve Buscemi (Charlie), Vondie Curtis-Hall (Ed), Royale Johnson (Earl), Winston Hoffman (Wilbur); produzione: Victor Company of Japan Limited, Mystery Train Inc.; distribuzione: Academy; origine: Usa, 1989; durata: 111’.

Trama:"Mystery Train - Martedì notte a Memphis" è un film scritto e diretto da Jim Jarmusch, in cui si dipanano tre vicende, tutte ambientate nella cittadina americana di Memphis. Ogni episodio è collegato all’Arcade Hotel, un albergo fatiscente presidiato dal portiere notturno (Screamin' Jay Hawkins) e dal facchino, dove i personaggi di ogni storia trascorrono una notte.
Nella prima storia, Lontano da Yokohama, i protagonisti sono Mitsuko e Jun, una giovane coppia di giapponesi. I due, grandi appassionati della musica rock’n’roll, si fermano a Memphis durante un lungo viaggio per gli States per rendere omaggio alla memoria di Elvis Presley.
La seconda vicenda s’intitola "Un fantasm"a. La vedova italiana Luisa si ritrova bloccata a Memphis mentre cerca di riportare la salma del marito in patria. La donna condivide la sua stanza d’albergo con Dee Dee, una ragazza che ha appena rotto col fidanzato e medita di lasciare per sempre la città. Ma durante la notte, Luisa viene svegliata dall’apparizione di Elvis Presley…
L’ultimo episodio, Perduti nello spazio, narra le vicende di Johnny, soprannominato Elvis per la sua acconciatura. Arrabbiato per aver perso il posto di lavoro e la fidanzata Dee Dee, l’uomo si reca in un bar dove si ubriaca e tira fuori una pistola. Dopo aver lasciato il posto assieme all’amico Will Robinson (Rick Aviles) e a Charlie (Steve Buscemi), il fratello della sua ex ragazza, si dirige a un negozio di liquori con l’intenzione di derubarlo. Ma durante la rapina Johnny spara al commesso: temendo le conseguenze del gesto, i tre decidono di recarsi all’Arcade Hotel per trascorrervi la notte.

Critica (1):Note sul viaggiare
Cosa ne rimane del viaggiatore dopo aver viaggiato? La necessità di riprendere il viaggio. Quindi l’impressione, la vaga consapevolezza che nessun viaggio, nessuno spostamento possa mai essere concluso, anche se è possibile parlare di una eventuale conclusione, di un esaurimento che non investe e non invalida una funzione. Semmai si delinea la perdita di una qualità del muoversi dei personaggi in luoghi con i quali il rapporto è perlopiù di estraneità. Lo spazio occupato è quello della tappa di un viaggio (solo parzialmente visualizzabile nell’albergo). I viaggi, gli spostamenti, le fughe sono presenti allo spettatore come tensione. Ma di tutto questo egli può sperimentare solo ciò che si configura come una stasi, una pausa. Nella migliore delle ipotesi, in un girovagare. Con Jarmusch siamo al confine del viaggio. In una zona in cui il viaggiare si stempera e si decanta in movimento che rallenta per arrestarsi, o che riprende a scatti, per reazioni, o per una inerzia oscillante tra consapevolezza e azione inconscia, in cui si perde non solo la volontà ma anche il desiderio. Al posto del desiderio vi è, tutt’al più, l’eccitazione (autoindotta in Misuko). Quando i personaggi parlano di loro, le parole si fermano laddove arrivano le immagini. Il pensiero, la riflessione interiore non giungono che ad influire sull’espressione del volto, nella reiterazione di un comportamento distaccato (Jun) o di semplice attesa (Luisa). Non si trasformano in discorso. Il pensiero, l’insoddisfazione, la fantasticheria hanno il volto di un attimo di debolezza (Mitsuko, dopo avere fatto l’amore con Jun), che non si può fare a meno di esternare. Se vi fosse parola, questa dovrebbe assumersi responsabilità troppo grandi da parte di chi parla, sia nei propri confronti, sia rispetto agli altri. La logorroicità di Dee Dee, che parla a macchinetta travolgendo di parole la povera Luisa (dopo averla quasi travolta fisicamente), o quella di Johnny e Will, ubriachi, è ben lontana dall’essere ricondotta alle caratteristiche di cui stiamo parlando. Di fatto esse non sono che parole in libertà, sfoghi o rancori. Le cose sono messe in discussione solo da fratture che non aprono squarci nella continuità. Nell’ultimo episodio, dove la frattura sembra in effetti avvenire provocando un trauma, questa non mette in gioco le caratteristiche di un dramma improvvisamente sfociato, ma di una cosa che era lecito attendersi. L’eccesso della notte di ubriachezza e disperazione di Johnny, è il segno di una delle tante curve di oscillazione i una vita ai margini (o forse si può dire semplicemente i una vita?). Il «viaggio» è colto nel suo procedere inerziale, in uno spostamento che si situa nella curva discendente della parabole del perseguimento di un percorso, nel momento in cui si ripiega su se stesso e in cui le motivazioni del proprio viaggio, del proprio spostamento sono semplicemente causali. Il viaggio ha esaurito il suo fascino e il suo effetto. Allo spettatore viene reso il rallentamento del movimento, o un rapido girare a vuoto, la semplice reazione fisica al disagio, allo smarrimento, alla paura.
Dispersione
Il turismo di Jun si deforma. Usa la macchina fotografica solo nelle stanze d’albergo o negli aeroporti perché, dice, proprio di queste non ricorderà nulla. Che senso dare, allora, al fatto che, dopo aver detto questo, scatta una foto a Mitsuko (seppure nella stanza dell’albergo)? Il turismo di Jun sbanda paurosamente, e con esso la sua passione di fan, quando si fa strada, nella sua delusione, il paradosso che Memphis non sia così diversa da Yokohama, solo un po’ più spaziosa, salvo rinnegarlo più tardi, troppo cocciutamente per essere sincero. Questa Memphis è proprio così, spaziosa. Spaziosa perché semideserta, come altre città viste da Jarmusch (il cui aspetto desolato è, a tratti, addolcito esteticamente). I personaggi di tutti e tre gli episodi varcano soglie di desolazione. Si agitano, oppure, inebetiti, si aggirano in spazi che non appartengono loro. Nell’ambito temporale della tappa ci si può lasciare andare, non avere scelte da fare, nessuna priorità da stabilire. Assieme a loro il mondo appare instabile, precario, tanto da fare da contrappunto ideale agli stati d’animo dei personaggi. Unico centro immutabile: il portiere dell’albergo (Screamin’ Jay Hawkins). Cuore attorno a cui pare prendere forma la vaghezza di una unità di luogo inteso, più che altro, come «espediente», mezzo per rimandare da un episodio all’altro, senza tuttavia metterli strettamente in rapporto. Di fatto questi episodi non entrano in collisione, e il meccanismo di Jarmusch può fare parlare di giochetto. Eppure questo giochetto pone lo spettatore di fronte ad uno spazio contemporaneamente frammentato e ripetitivo, non mira ad alcuna soluzione lasciando scollegate le vicende dei diversi personaggi. Jarmusch cerca un modo personale per affrontare un film con tre episodi che non siano completamente separati ma che neppure si leghino strettamente tra di loro intersecandosi. Quando arrivano a toccarsi, ciò che ne risulta è appunto un puro e semplice toccarsi: il punto in comune, un minimo comune denominatore come l’ascolto del medesimo programma radiofonico, della stessa canzone alla stessa ora, o il fatto di trascorrere la notte nel medesimo albergo. Lo spazio si rinchiude. Dalle carrellate che possiedono fluidità, nella insistenza, agli stacchi nelle riprese in interni. Un movimento centripeto che il finale lacera con squarci brevi e improvvisi, a loro volta segmentati dai titoli i coda. Se si vuole il parallelismo delle tre «storie» è presente solo nelle sequenze finali, rispettivamente del proseguimento del viaggio, del ritorno a casa, della fuga. Così, una specie di big bang provoca una nuova dispersione le cui motivazioni sono scarne, e, alla fine, ininfluenti. Dispersione, però, non a partire da una avvenuta aggregazione, ma da una ipotesi, dalla spazializzazione di una possibilità. D’altra parte la città non è mostrata se non nelle sue propaggini desolate o attraverso le deformazioni dei riferimenti «mitici», come il Sun Studio, o in un folkloristico immaginario: il fantasma del re del rock’n’roll la cui presenza vera/falsa, similmente a Nessie (il «mostro» di Lock Ness), diventa un elemento turistico, la cui sostanza è, anch’essa, dispersa da qualche parte in questo mondo, disseminata e vaga, fatta di emblemi, t-shirts, luoghi comuni, e rinasce, nella sua profondità, solo attraverso vecchie registrazioni che ancora è possibile ascoltare. Allora, la voce bisbiglia ritmicamente nella notte, alla radio, e il fantasma appare, nella notte, imbarazzato, anche lui, evidentemente disorientato.(...)
Il colore
(...) in questo lungometraggio i colori sembrano sparire dalla mente. Ripensando al film si ritrova il rosso delle labbra di Mitsuko e la macchia che provoca su quelle di un meditabondo Jun, il rosso della giacca del portiere d’albergo, oppure quelli già più sbiaditi, quasi pastellati, del ritratto di Presley nella stanza in cui finiscono Johnny e i due amici in fuga. Se non fosse per questi «estremi», in cui il colore è marcato suo malgrado, si potrebbe dubitare di avere visto un film a colori. Forse è un aspetto unicamente soggettivo, e a ben guardare contiene anche un elemento sostanzialmente negativo: un’aspettativa (a priori) giunta a fagocitare il ricordo (a posteriori), al di là dell’esperienza della visione. La notte sembra annullare i colori. D’altro canto, nelle riprese «di giorno» il colore non è marcato e non influisce espressivamente. Al di là del colore la preoccupazione di Jarmusch è rivolta maggiormente alla luce, ed affronta il colore partendo da quest’ultima. Le cose, i personaggi non hanno un colore. I colori sono ricondotti all’interno di opposizioni di luminosità, come è chiaro nella sequenza del sonno e del risveglio di Jun e Mitsuko nel letto dell’albergo.
Limite e decentramento
Ciò che invece è puntualmente mostrata è la desolazione, il situare l’azione lungo un limite, dove la riproposta di un segmento temporale risulti l’ambito ideale in cui fare decantare i ritmi del film e il proseguimento della storia. Ma ciò impedisce sia ai personaggi che agli spettatori di vedere al di là dell’immediato: nessun passato, nessun futuro. Un punto vuoto, nessun pensiero. Il limite, il margine: nessuna forma per nessun pensiero. Tuttavia la «storia» non procede lentamente. Ha proprie tappe interne, quindi si costruisce in base a salti temporali comuni ad ogni personaggio. Sebbene sembri che tutto sia immobile, che i personaggi vengano risucchiati per le strade semideserte di una città fantasma, le cose, a un certo punto, «precipitano». Il tempo score velocemente in un procedere a scatti rapidi, rigidi: giorno, notte, partenza. I personaggi vengono dal Giappone, dall’Italia, dalla Gran Bretagna. L’unico che forse non tornerà al paese d’origine è Johnny (le immagini finali lo mostrano maldestramente in fuga non si sa per dove). Nessuno comprende appieno il mondo in cui si trova. L’impatto di ognuno di essi, nonostante le differenze, presenta un movimento costante, quello di essere rimandati ai bordi, al di fuori. Questo decentramento, questo muoversi lungo un margine da cui non si può vedere cosa è delimitato (che implica il non vedere alcuna forma, alcun criterio per nulla) comporta l’evitare di affrontare ciò che tangenzialmente si affaccia questo limite. Si passa oltre, si trova una scappatoia, non si interagisce con nulla se non in modo chiuso e così brevemente che nulla rimane. Questo decentramento è complessivo: spaziale, temporale e anche personale, si potrebbe dire psicologico se ciò non fosse fuorviante per questi personaggi e per il modo in cui Jarmusch desidera che parlino allo spettatore. Jarmusch mischia le cose senza confonderle: la faccia triste degli Stati Uniti, il declino di una città come Memphis, con un passato non legato solo alla cultura musicale, la genuinità del rock e del blues. D’altra parte i suoi personaggi, pur invischiati (in particolare Johnny) in azioni da cui può scaturire il dramma, non vi appartengono. Nel giro di ventiquattro ore (tale l’ambito temporale in cui si distendono le tre storie) Johnny perde il lavoro, la ragazza, si punta contro per due volte la pistola e per due volte sono altri ad essere feriti. È l’esempio più chiaro di un altro limite: la drammaticità è trattenuta, stilizzata, e, per contro, non si scivola nell’ironia.
Fabio Matteuzzi, Cineforum n. 290, dicembre 1989

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