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Giorni dell'amore (I) - Nobat e Asheqi


Regia:Makhmalbaf Mohsen

Cast e credits:
Sceneggiatura:
Mohsen Makhmalbaf; fotografia: Mahmud Malaria; montaggio: Mohsen Makhmalbaf; scenografia: Mohammad Nasrollahi; suono: Jahaangir Mirshekari; produzione: Green Film House/Gruppo di spettacolo Shahed/Società Darsib; interpreti: Shiva Gerde (Gazale), ‘Abdolrahrnan Yalmas (l’uomo bruno), Aken Tunj (l’uomo biondo), Menderes Samanjilar (l’uomo anziano); produzione: Green Film House, Gruppo di Spettacolo Shahed, Società Darsib; origine: Iran, Turchia, 1990; durata: 75'.

Trama:Prima versione: l’uomo bruno è il marito di Gazale. Mentre sta registrando il canto degli uccelli in un cimitero, un anziano individuo ascolta per caso la conversazione tra un biondo lustrascarpe e la sua amante. Egli riferisce ogni cosa al marito, un uomo bruno, che uccide il rivale e si consegna alla polizia: in tribunale viene condannato a morte e, concessagli la possibilità di scegliere le modalità per la propria esecuzione, chiede di essere gettato in mare. Ricorda, infatti, quello che un giorno la nonna gli disse: «Quando uno muore in mare, ritornerà alla vita nuovamente». Intanto Gazale si toglie la vita nel luogo in cui aveva conosciuto il suo amante. Seconda versione: l’uomo biondo è il marito di Gazale Questa volta la giovane donna è l’amante dell’uomo bruno, un autista di taxi; informato delle sue disgrazie amorose dall’anziano individuo, l’uomo biondo uccide il rivale e, condannato a morte, sceglie di venire impiccato all’albero ai piedi del quale aveva fatto la corte a Gazale. Terza versione: ritorno alla situazione di partenza. I due uomini rinunciano a disputarsi Gazale. Il bruno permette al biondo di sposarla. Durante il matrimonio, il giudice che aveva presieduto i due precedenti processi, annuncia le proprie dimissioni, poiché si sente diviso tra il dovere di condannare l’assassino e il forte desiderio di assolverlo per l’intensità della passione. Dopo la cerimonia, il taxista offre la sua auto come regalo di nozze. Poi lascia soli gli sposi, ma la donna non è felice. Torna a desiderare ardentemente l’uomo bruno. Il suo nuovo marito, sacrificando se stesso per amore di lei, va alla ricerca dell’altro e, sulla via, incontra l’anziano individuo che gli rivela il proprio amore per Gazale.

Critica (1):«Erano in molti ad attendere questo film. Gli organizzatori del festival Fajir hanno dovuto moltiplicare le proiezioni e quindicimila spettatori hanno potuto vederlo. Ma, a questo punto, alcuni giornali importanti hanno cominciato ad attaccare la mia opera e la mia persona. Improvvisamente, I giorni dell’amore è stato vietato. Una donna sposata che ha una relazione amorosa con un altro uomo: questa cosa costituiva evidentemente un problema. Inaccettabile! Inoltre, è stato mal recepito il fatto che il giudice nel film venga in un certo senso giudicato. Io penso che al mondo esistano due punti di vista. Il primo consiste nella netta divisione tra il bene e il male. Il secondo, più ambiguo, presenta dei personaggi che non costituiscono un blocco (...)» Dall’inizio alla fine I giorni dell’amore procede sotto il “segno dell’ironia”. Invece di attaccare frontalmente la rigidità di costumi del proprio Paese, e in particolare il machismo che presiede alle relazioni coniugali, Mohsen Makhmalbaf prende, per così dire, una strada tangenziale; non filma i suoi personaggi che di sbieco, li affida a un andirivieni di identità che sconcerta assai più di una critica sociale aperta. La censura iraniana non è così ottusa e ha costretto il regista a girare in Turchia, prima di bloccare per cinque anni la distribuzione del film. Ciò è dovuto, senza dubbio, in primo luogo a una visione assolutamente anticonvenzionale delle relazioni tra uomini e donne: allo scambio dei ruoli tra il marito e l’amante da un’estremità all’altra del trittico, risponde la situazione disperatamente intangibile della donna che non può sfuggire alla propria condizione se non con l’adulterio o la morte. E l’autorità morale, sebbene possa cambiare di direzione (viene esercitata tanto contro il marito che contro l’amante), rimane ogni volta onnipresente e derisoria, opponendo agli straripamenti del cuore umano sempre lo stesso linguaggio primitivo del bastone, la stessa parodia della giustizia univoca. Ma, a fianco di questa lettura immediata che ha potuto giustificare la condanna ufficiale del film (come se la realtà politica si premurasse di rassomigliare alla propria caricatura), il film disturba più profondamente per la pluralità di interpretazioni che suscita e che, a forza di proliferare, tendono ad annullarsi a vicenda; in margine alla sovversione, Makhmalbaf pratica una logica di corruzione per cui, nonostante sembri riprodurre e ripetere i codici narrativi tradizionali, in realtà li sostituisce in modo sottile dal di dentro, così come sostituite devono essere le coordinate di riferimento degli spettatori, estranei alla cultura iraniana. Ciò si rende possibile prima di tutto per la struttura in tre parti, con tutto quello che di pirandelliano vi è connesso (il medesimo attore interpreta il marito e successivamente l’amante, le medesime situazioni vengono filmate sotto angolazioni differenti...) e in cui taluni, nella loro negazione ludica di ogni psicologia, vedono rappresentato un omaggio all’azzardo che sta alla base del Resnais di Smoking/No Smoking. Ma il regista non si ferma a un disordine delle apparenze che non avrebbe che un valore drammaturgico (come farà con qualche schematismo in Salam cinema, sottolineando fino a che punto la natura umana può lasciarsi modellare e deformare dal potere per mezzo dell’arte). In un certo senso egli mette in gioco il proprio stesso statuto, il proprio imperialismo di creatore, costellando il racconto di segni ricorrenti, talmente ricorrenti da arrivare a dire tutto e il contrario di tutto. Vi è qualcosa di buñueliano in questa espansione infinita dei simboli, che non smette mai di eludere malignamente l’analisi compiuta in un primo tempo, in una specie di ripetizione polimorfa: come in Bella di giorno, si vede passare e ripassare una vettura a nolo che in un primo tempo conduce gli amanti alla loro separazione, poi la donna al suicidio, poi uno dei due uomini alla propria impiccagione; come nella quasi totalità dei film di Buñuel si vede sviluppato il tema dell’ossessione per i piedi, che può essere qui fonte di adorazione erotica, là fantasma di morte... L’ambivalenza di queste strizzate d’occhio è tanto più grande poiché esse si presentano con la semplicità e la naïveté di un’icona, e sembrano riflettere, al di là di ogni precisione di significato, archetipi direttamente scaturiti dall’inconscio: a questo punto la distanza si fa così sottile da diventare il ritorno a una specie di cecità, di irragionevolezza originale. In effetti, se qui esiste un solo elemento stabile, un solo sguardo sotto il quale il mondo possa organizzarsi, lo si incontra in prossimità di quel vecchio che frequenta il cimitero e che sembra saper decifrare, ancor meglio, quell’irrequietezza umana che gli è straniera e che non gli appare se non come uno spettacolo lontano e silenzioso (se si eccettuano quei momenti in cui la musica gli dà una sembianza d’armonia). Quali che siano le maschere e i sotterfugi che il desiderio sceglie, si finisce sempre per giungere allo stesso approdo, per lasciare che a prevalere siano lo sguardo della distruzione e dell’amore. E la più crudele ironia di Makhmalbaf è sì quella di moltiplicare le possibilità e gli equivoci, ma per meglio scoprire ciò che, nell’interiorità dell’uomo, rimane irriducibilmente inattingibile.
Noël Herpe, Le Temps de l’amour. C’est la morte qui regarde, «Positif» n. 422, aprile 1996

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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