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Da qualche parte in città


Regia:Sordillo Michele

Cast e credits:Soggetto, sceneggiatura: Michele Sordillo; dialoghi: Michele Sordillo, Gaetano Sansone; direttore della fotografia: Luciano Baresi; scenografia e costumi: Stefania Sordillo; suono (presa diretta): Roberto Mozzarelli; musica: Ludovico Einaudi; montaggio: Gianni Lari; interpreti: Ivano Marescotti (Enrico), Carlina Torta (Anna), Fatos Haxjiraj (Aghim), Carolina Salomé (Giulia), Eugenio Canton (Morini), Massimo Gallerani (Giovanni); produttore esecutivo: Riccardo Rovescalli; produzione: Arcadia Sas; origine: Italia, 1994; durata: 75'.

Trama:Lei fa l'insegnante di pianoforte. Lui è un affermato dirigente d'azienda. Non hanno figli. Un vuoto che, quotidianamente, riscontrano nel loro menage familiare. Un giorno trovano per strada un ragazzo extracomunitario. Pieno di lividi e sangue, picchiato quasi a morte da un gruppo di teppisti. I due lo soccorrono. E gli aprono la porta del loro cuore. Ma, nonostante tutto, la diffidenza ha il sopravvento

Critica (1):Alcuni anni fa Michele Sordillo, che vive a Milano (“no, non faccio pubblicità”), realizzò un film intitolato La cattedra, un apologo sull’opportunismo attraverso il microcosmo delle rivalità di ambiente accademico. Ora Sordillo partecipa al “Panorama italiano” dell’imminente Mostra di Venezia con il suo secondo film Da qualche parte in città. Uno dei quattro film con i quali è presente alla Mostra l’attore Ivano Marescotti (gli altri: Strane storie di Sandro Baldoni, I pavoni di Luciano Manuzzi, Dichiarazioni d’amore di Pupi Avati). Parabola ancora più esemplare sullo “spirito dei tempi”. Ma Sordillo, che sembra essersi dato una regola di understatement dalla quale è difficile stanarlo, preferisce sfumare sulle intenzioni che gli paiono troppo pretenziose, e parla della qualità del suo film con accenti esageratamente autocritici, in fondo ai quali però si avverte lo zoccolo duro dell’orgoglio di chi ha fatto tutto con le proprie forze. «Girato in appena diciotto giorni, una media di cinque minuti al giorno. Nell’estate del ’93, dopo la consueta lunga trafila: RAI, Art. 28. Ma non abbiamo avuto niente».
Fa parte dello stile di Sordillo quasi giustificare perché, malgrado il ritardo causato dalle difficoltà produttive, egli non abbia voluto rinunciare a un’idea e a un tema – il turbamento causato dall’afflusso di immigrati dal sud e dall’est del mondo – già in parte, dice, usurato: dal film di Soldini Un’anima divisa in due, da quello di Mazzacurati Un’altra vita, da Zaccaro in L’articolo 2 o da Placido di Pummarò.
«Ma sarebbe stato troppo doloroso rinunciare. E poi mi sono detto che tutti quei film condividevano il punto di vista dell’immigrato, e nei casi di Soldini e Mazzacurati poi si trattava di storie d’amore per una donna, una donna che rappresenta l’illusione di un’altra vita. Mi sembrava che nessuno avesse ancora guardato, e dilatato come io ho inteso fare, quel piccolo clic che scatta in tutti noi; quell’albeggiare non dico di razzismo ma di diffidenza nei confronti del diverso in una famiglia borghese. Quelle altre erano tutte storie di apertura, io ho invece osservato la chiusura. In questo senso, mi sono detto, la mia storia conservava una ragione di essere realizzata e vista. Non solo per il dispiacere di sprecare tanto lavoro».
Facciamoci aiutare dal regista a ripercorrere la vicenda narrata dal suo film. «Il protagonista, un uomo sui 45-48 anni, un giorno porta in casa un albanese, si intuisce che c’entrano qualcosa il suicidio di un vecchio amico e i suoi sensi di colpa. Poi lo sfondo: la moglie è una concertista mancata, sono una coppia senza figli, lui ha un’altra donna... La loro è una vita miseranda. In questo contesto la decisione di Enrico – così si chiama l’uomo – è un colpo di testa, ma è anche una buona azione. Uno scatto esistenziale. E lei, la moglie, rifiuta questa novità. Insomma sono due i piani: le loro scene da un matrimonio da una parte, e dall’altra l’intrusione dell’estraneo; intrecciati, perché portare in casa quell’uomo fa parte della stessa schermaglia tra i due. Ecco il gioco».
E Sordillo aggiunge: «Ho avuto in mente una chiave di partenza, un modello di “storia a tre”: Il coltello nell’acqua (il primo film di Roman Polanski, ndr). Anche se io ho voluto evitare un confronto generazionale, che avrebbe introdotto un elemento di ambiguità fuorviante: una possibile storia d’amore tra l’immigrato (che non è un giovane) e la donna. Volevo che la mia storia restasse quotidiana, bassa».
Storia che continua con una serie di ribaltamenti (sarà l’uomo a pentirsi del gesto compiuto) fino all’espulsione del diverso, che sarà risultato funzionale alla “ricomposizione dell’equilibrio di partenza”. La morale è piuttosto chiara.
E torniamo con Sordillo sul senso del film. «Sì, ha capito bene. È prorpio quel microsentimento che ci riguarda tutti ogni giorno. Nel reagire diversamente, a seconda dello stato d’animo, a chi vuole lavarci il parabrezza al semaforo. Un episodio che è capitato a me: non compro mai videocassette pirata, ma una volta volevo comprarne una da uno di quei venditori in strada, forse solo per dargli dei soldi. Avevo cinquantamila lire, gliene dovevo diecimila; lui ha preso questa bancanota ma non aveva da cambiare, e non me la voleva restituire. Ebbene siamo andati insieme, mano nella mano, fino alla più vicina tabaccheria per cambiare. è grottesco, comico, ma anche la spia di un meccanismo micidiale; che in futuro potrebbe portare danni terribili, che dobbiamo saper tenere sotto controllo».
Paolo d’Agostino, da La Repubblica

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Michele Sordillo
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