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Coppa (La) - Cup (The) / Phörpa


Regia:Norbu Khyentse

Cast e credits:

Sceneggiatura: Khyentse Norbu; fotografia: Paul Warren; montaggio: John Scott; musiche: Mongolian Overtone (Hoomii) Singers, The Gyuto Monks; scenografia e costumi: non accreditati; interpreti: Orgyen Tobgyal (Geko), Neten Chokling (Lodo), Jamyang Lodro (Orgyen), Lama Chonjor (Abate), Godu Lama (Lama anziano), Thinley Nudi (Laico tibetano), Kunsang (Monaco cuoco), Kunsang Nyima (Palden), Pema Tshundup (Nyima), Dzigar Kongtrul (Maestro Vajra), Dhan Pat Singh (proprietario negozio TV), Peme Awan, Choegar Gyurme Lin (i monaci del Monastero); produttori: Malcolm Watson e Raymond Steiner; distribuzione: Lucky Red; origine: Australia/Gran Bretagna /India/Bhutan, 1999; durata: 90'.


Trama:In un monastero buddista alle pendici dell’Himalaya arrivano due giovani esuli tibetani per prendere i voti. Capitano in un momento molto particolare. La disciplina e la serietà del sacro luogo sono infatti messe seriamente in pericolo da un avvenimento esterno: la finale dei campionati mondiali di calcio, che i monaci più giovani vogliono assolutamente vedere. Sarà il vivace Orgyen a trovare il modo di coniugare studio e tifo, e il pallone entrerà da protagonista nel monastero in una serata memorabile.

Critica (1):Ciò che sorprende vedendo un film come La coppa è la verifica di come, attraverso il cinema, una cultura esprima scambi, apprendimenti e meticciati con altre, altrimenti insospettabili. Immersi nelle brutture del calcio nostrano, tra roventi polemiche arbitrali e il puntuale caso di mostruosità da calciomercato (Vieri, Ronaldo, Lentini, Baggio) che ogni anno supera regolarmente i presunti limiti di decenza, ignoriamo che il calcio in realtà possiede anche doti taumaturgiche. Facendo un salto indietro con la memoria, ricordiamo per esempio E la vita continua di Kiarostami, in cui la finale della coppa del mondo del 1982 (e l’Italia di Paolo Rossi) era un solido appiglio per la popolazione del nord dell’Iran per aggrapparsi ad una parvenza di normalità tra le distruzioni di un terremoto catastrofico. Il nostro essere tifosi reali (allo stadio) o virtuali (attraverso la radio, «Quelli che il calcio…» o la Paytv, il nuovo business delle società calcistiche) si è consolidato nei decenni in una delle immagini più stabili che abbiamo di noi stesi; al contrario, quando si pensa al Bhutan, al Nepal o al Tibet, la nostra conoscenza ci porta a pensare immediatamente a culture pastorali, montane, arretrate e legate indissolubilmente alle seduzioni e alle pratiche buddiste. Un film come questo, invece, è fecondamente e felicemente destabilizzante, perché ci dimostra che nella società moderna il meticciato culturale funziona in modo insospettabile, soprattutto se si pensa che il regista Khyentse Norbu è un vero monaco (e che si considera la reincarnazione di Jamyang Khyentse Wangpo, un riformatore religioso vissuto nell’Ottocento) come sostanzialmente vera e legata a ricordi personali è la storia del film.
In novanta minuti di proiezione scopriamo che il cinema negli ultimi anni, attraverso film d’autore o commerciali come Kundun, Il piccolo Budda (sul cui set Norbu ha lavorato come consulente religioso, conoscendo il produttore Jeremy Thomas che gli ha consentito di realizzare questo film) o Sette anni in Tibet, ci ha proposto una visione monoliticamente parziale di quella cultura: certo non falsa, ma incompleta. Anche se con leggerezza, il film, infatti, non dimentica i problemi legati all’invasione cinese del Tibet che costringe i monaci a vivere nel nord dell’India e al razzismo strisciante degli indù o l’austerità delle secolari leggi monastiche, ma ricollega tutto ciò a un presente che attraverso rivoli insospettati, si insinua in anfratti ritenuti inaccessibili.
Se il regista è un vero monaco, altrettanto vale per gli attori, i quali non dimostrano alcuna soggezione nei confronti della macchina da presa e sfoderano un mestiere decisamente sorprendente. Specialmente il piccolo Orgyen, rasato come Ronaldo («Lui ha i capelli rasati come noi, ma non è un monaco» per il quale ha una vera e propria… venerazione, tanto da nascondere sotto il letto la sua maglietta e numerosi ritagli i giornale, ha una naturalezza e una sfrontatezza che ricorda i piccoli sciuscià del cinema neorealista italiano. È lui il vero motore di tutta la vicenda, trasmettendo il suo amore per il calcio prima ai suoi giovani compagni e poi al resto del monastero, coinvolgendo anche il vecchio àugure con le sue divinazioni, per conoscere in anteprima i risultati delle partite.
Anche il tono generale della commedia ci riporta idealmente al cinema di casa nostra ed in particolare a Francesco giullare di Dio del 1950, delizioso film in cui Rossellini aveva utilizzato dei monaci francescani. Cinema, calcio e religione trovano quindi una sorprendente sintesi in questo filmetto costato appena 640 mila dollari e realizzato con una troupe tecnica australiana, e la prossima volta che ci troveremo ad esultare per un gol di Ronaldo e soci durante una Coppa del Mondo sarà difficile non chiedersi cosa starà accadendo in qualche lontano e sperduto monastero o villaggio di quello che ci ostiniamo a chiamare “terzo mondo”.
Fabrizio Liberti, Cineforum n. 389, novembre 1999

Critica (2):Khyentse Norbu, il regista de La Coppa, è egli stesso un Lama reincarnato della tradizione buddista, nato nel Bhutan, con studi pregressi in Sikkim e India. Ha conosciuto il cinema durante l’adolescenza ed è stato aiuto regista di Bertolucci per Il Piccolo Buddha, tanto che Bertolucci ha visionato un primo montaggio di questo film, dando dei suggerimenti. Norbu ha poi diretto un paio di cortometraggi (Etto Metto e The Big Smoke) ed ha intrapreso un sodalizio con l’architetto australiano Malcolm Watson, costruttore di centri di ritiro spirituale per i suoi corsi e poi produttore del film. Il pretesto dell’incontro tra la pratica buddista e i mondiali di calcio è l’occasione per lo spettatore occidentale per rivedere la sua immagine della disciplina orientale in senso demistificante. Demistificante nel senso che il film è disseminato qua e là di scene, particolari, atteggiamenti che sconvolgono la nostra visione tradizionale di tipo proiettivo. Lo spettatore, aldilà del suo livello di cultura, troverà certi comportamenti dei monaci buddisti in contrasto con l’idea comune che si ha dell’ascetica pratica monastica – idea, è bene sottolinearlo, che molto dipende dalle religioni occidentali. Lo sforzo che la visione del film impone, di uscire dai luoghi comuni e tentare un approccio nuovo con quella cultura, sarà più o meno facile da persona a persona ma è assolutamente appagante. Un’inquadratura raffigura bene questo ragionamento ed è quella in cui un giovane monaco solleva una tazza per bere e sul fondo della tazza vediamo disegnata una svastica. Nell’attimo in cui ci ricordiamo che, prima di essere il marchio nazista, essa simboleggia in molti culti orientali il movimento cosmico, capiamo che grazie al film di un orientale possiamo, per così dire, riscrivere l’emisfero orientale del nostro immaginario. Se, come dice Norbu, "fare un buon film è come praticare i riti buddisti: tutto comincia attraverso la coscienza dei nostri meccanismi di suggestione", questo film sta dalla parte del continuo rinnovarsi di tali meccanismi, grazie ai quali possiamo dire che tutto il film è un’operazione non priva di una certa scaltrezza, un’ottima pubblicità per il Buddismo in tutto l’Occidente, senza che per ciò il messaggio ne esca viziato. Sulla superficie della storia coesistono due letture da due punti di vista: il calcio è un fenomeno talmente coinvolgente da ipnotizzare personaggi così equilibrati e affrancati dal desiderio come i monaci buddisti; ma ci si può lasciar coinvolgere senza diventare schiavi. Il piccolo monaco capisce di aver chiesto al suo amico un sacrificio troppo grande pur di trovare il denaro per affittare l’antenna parabolica e guardare la finale dei mondiali. E non aspetta neanche la fine della partita per iniziare a rimediare alla sofferenza che si accorge di aver provocato. La partita non interessa più. Quest’epilogo ha la qualità di essere – per usare una locuzione fuori tempo massimo – moralmente ineccepibile. Ma è anche coerente all’assunto di cui il film vuole essere testimonianza, ossia la frase che lo chiude a sigillo: "se un problema può essere risolto, perché essere infelici? E se non può essere risolto, domandiamoci: a cosa può mai servire essere infelici?".
Andrea Marzulli, Cinemastudio.it.

Critica (3):Presentato alla "Quinzaine des réalisateurs" dell’ultimo festival di Cannes, La coppa è diventato un piccolo caso, mietendo premi nei moltissimi festival a cui ha partecipato, e sorprendendo autore e produttori, che non si aspettavano tanta simpatia intorno al loro film. Motivi di interesse, va detto, ce ne sono parecchi, a partire dalla curiosità di vedere all’opera nei panni di regista un Lama buddista tibetano. Khyentse Norbu, trentottenne, più conosciuto col nome di Lama Rinpoche, è stato riconosciuto a sette anni come la reincarnazione di un celebre santo e riformatore religioso tibetano, è insegnante di filosofia e rettore di numerosi monasteri, pur essendo, a tutti gli effetti, un laico. La passione per il cinema, nata tardiva, lo ha completamente assorbito quando è stato chiamato in qualità di consulente (e coinvolto in seguito come aiuto regista e attore) da Bernardo Bertolucci, allievo della sua scuola, per Piccolo Buddha. Ma i suoi maestri cinematografici sono altri: Ray, Tarkovskij, il De Sica di Ladri di biciclette, il Nanni Moretti di Caro Diario, e così via, in una passione cinefila senza confini. Ecco dunque che la semplicità della struttura de La coppa appare tutt’altro che dettata da ingenuità, ma è stata scelta come mezzo espressivo per veicolare un messaggio profondo che toccasse una platea il più vasta possibile. Non occorre essere buddisti, né essere addentro a questioni spirituali per apprezzare questo film, che in modo lieve, ma sincero e coinvolgente, ci racconta che anche i monaci sono esseri umani, che si possono vivere le proprie passioni se si rinuncia al proprio ego, e ci fa assistere all’irruzione della modernità, sotto forma di un’antenna parabolica e di un evento sportivo come i campionati mondiali di calcio, nella calma secolare di un monastero fino ad allora isolato dal mondo. La coppa ci racconta della vera passione di veri monaci per un gioco dei cui interessi economici sono del tutto all’oscuro: quel che conta per loro è fare il tifo per la Francia, paese amico del Tibet (e pazienza se a farne le spese è l’Italia del buddista Baggio), partecipare a tutti i costi a un evento che viene così descritto con toccante ed efficace sintesi da Geko all’anziano abate: i rappresentanti di due nazioni civili che lottano per il possesso di una palla.
Il film ci porta dentro alla vita semplice e quotidiana di un monastero: in Occidente, ci ha detto Norbu, si tende ad idealizzare troppo il buddismo, che non è una religione ma una filosofia di vita. Ecco dunque che nell’ordinato procedere di giorni scanditi tra preghiere, studio e rituali, c’è spazio per le monellerie e l’insofferenza di alcuni, che come tutti i ragazzini da che mondo è mondo possono essere crudeli coi diversi (il vecchissimo veggente del monastero, oggetto di scherzi anche pesanti), e conservare e scoprirsi un’anima grande e pura. La coppa convince dunque perché è vero, perché dà alle cose il loro giusto peso, e se la partita si interrompe per mancanza di energia elettrica, pazienza, si può ingannare l’attesa narrando con la tecnica delle ombre cinesi un’antica storia zen. Il film è stato girato in condizioni logistiche estremamente difficoltose, interpretato da veri monaci tutti rigorosamente non attori, e con una troupe improvvisata (gli unici professionisti erano il tecnico del suono e il montatore). Designato a rappresentare il Tibet nelle candidature straniere al premio Oscar, e nominato tra i migliori film non europei ai prossimi European Film Awards, La coppa a modo suo fa sentire la voce sommessa di un popolo oppresso e da noi spesso dimenticato, se non fosse per le occasionali visite del Dalai Lama e le prese di posizione in suo favore di star come Richard Gere e i Beastie Boys. Se tra un monaco buddista e Ronaldo c’è già una somiglianza fisica, anche il calcio può, paradossalmente, diventare messaggero di pace. Non farebbe male neanche ai nostri tifosi, apprendere questa lezione. Magari andando a vedere questo delizioso, inatteso, piccolo film zen.
Andrea Catelli, Cinema.Supereva.it

Critica (4):
Khyentse Norbu
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