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Histoire d’eau (Une) - Histoire d’eau (Une)


Regia:Godard Jean-Luc, Truffaut François

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: François Truffaut; fotografia: Michel Latouche; montaggio: Jean-Luc Godard; suono: Jacques Maumont; interpreti: Jean-Luc Godard (narratore), Jean-Claude Brialy (l’uomo), Caroline Dim (la ragazza); produzione: Pierre Braumberger per Les Films de la Pléiade, Parigi; origine: Francia, 1958; durata: 18’.

Trama:Nel 1958 un'inondazione si abbatte sulla regione parigina; a Truffaut sembra un'occasione per sfruttare i luoghi inondati come scenografia per un cortometraggio e così un sabato mattina parte con l'auto prestata da Claude Chabrol e 600 metri di pellicola. In effetti le cose vanno diversamente dal previsto: l'acqua si sta ritirando e Truffaut è imbarazzato dal trovarsi lì per girare un film mentre tutti sono indaffarati a cercare di salvare il salvabile. Ma ormai sono lì, girano la pellicola e tornano a Parigi dove Truffaut comunica al produttore di aver sprecato la pellicola e che non ne farà niente. Godard esamina il materiale e chiede a Truffaut di poterlo montare a suo piacere. Il risultato è questo cortometraggio in cui Godard oltre ad aver montato le scene in un ordine diverso da quello in cui erano state girate, ha scritto il commento, ha scelto la musica.

Critica (1):Occasionale e improvvisata è ancora l’esperienza di Une histoire d’eau, terzo cortometraggio di Truffaut: ma più dei risultati, la responsabilità dei quali ricade in misura assai maggiore su Godard, co-autore del film, interessa qui mettere in luce l’idea di partenza, per quanto di tipico e di rivelatore essa mostra dell’atteggiamento di Truffaut verso il cinema, che progressivamente va delineandosi attraverso queste pagine. Si è appena agli inizi della primavera del ‘58 e una improvvisa inondazione colpisce la regione parigina: l’idea di Truffaut consiste nel pensare di servirsi dei luoghi inondati come di un’idea scenografica per improvvisare una storia a soggetto, con personaggi e magari un bell’inseguimento in stile hollywoodiano. Ciò che viene respinto, in questa incursione cinematografica nella realtà, è proprio ogni atteggiamento di tipo documentaristico, la restituzione «oggettiva» e fedele di una realtà bruta, quella stessa destinata ai cinegiornali d’attualità. «Quando si vede un documentario e si è un cinéphile un po’ drogato, e cioè piuttosto un cinémane che un cinéphile, ci si dice: queste montagne, questi deserti, questi oleodotti, andrebbero bene con due personaggi che si inseguono. Ciò significa che si ama talmente il cinema sotto l’aspetto della convenzione che si diventa incapaci di ammirarlo sotto l’aspetto della bellezza registrata. È per questo, credo, che i cinefili non amano i documentari». Si confronti questa dichiarazione con un’altra, di alcuni anni posteriore, e si conosceranno i termini di una opposizione (cinema/realtà) destinata a non conoscere mediazioni lungo tutta l’attività filmica di Truffaut. «Ho sempre preferito il riflesso della vita alla vita stessa... Quando ho girato Jules e Jim, ho scelto uno chalet tra una ventina d’ altri, ma prima di allora non avevo mai guardato uno chalet, né un prato, né una foresta. Essendo un regista, sapevo che mi occorreva lo chalet più bello, per il bene del film. Se mi venisse chiesto quali sono i luoghi che ho più amato nella mia vita, risponderei la campagna in L’aurora di Murnau o la città dello stesso film, ma non citerei un solo posto che ho realmente visitato, perché non visito mai nulla. Mi rendo conto che è un poco anormale, ma è così. Non amo i paesaggi, né le cose; amo le persone, mi interesso alle idee, ai sentimenti».
Per filmare due giovani e i loro sentimenti, Truffaut parte un sabato per le zone allagate, con l’auto avuta in prestito da Chabrol e 600 metri di pellicola che il produttore Braumberger gli ha fiduciosamente accordato. Ma il sopralluogo si rivela deludente; l’acqua si sta ritirando e la piccola compagnia si sente imbarazzata, scoprendosi fuori posto a fare i matti mentre tutti sono impegnati a riaprare i guasti dll’inondazione. Comunque, i 600 metri vengono impressionati, in un modo o nell’altro; al ritorno, Truffaut comunica a Braumberger di avere sprecato la pellicola e di esser deciso a lasciar perdere. Ma Godard vede il materiale, gli piace e chiede di poterlo montare a suo piacimento, senza tener conto dell’ordine delle riprese. Il resto è noto: Godard scrive un commento, sceglie la musica, inventa gags, si diverte a citare gli autoria che gli sono cari, mentre racconta la storia di due giovani che abbandonano la «banlieu» allagata per andare incontro a Parigi e all’amore. I titoli di coda del film sono letti anziché scritti ( la voce è dello stesso Godard) e dicono: «Sappiate che è un film di Françoise Truffaut e Jean-Luc Godard. Michele Latouche ha firmato la fotografia. Roger Fleytoux dirige la produzione a nome di Pierre Braumberger, in omaggio a Mack Sennet, per i film della Pléiade. Ecco, signore e signori, è finito».
Alberto Barbera, François Truffaut, Il Castoro cinema

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Jean-Luc Godard
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