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India


Regia:Rossellini Roberto

Cast e credits:
Soggetto
: Roberto Rossellini; sceneggiatura: Sonali Senroy Das Gupta, Fereydoun Hoveyda, R. Rossellini; fotografia: Aldo Tonti; musica Giovanni Bross, Philippe Arthuys; interpreti: non professionisti; produzione: Aniene Film, Union Générale Cinématographique; distribuzione:Cineteca Lucana; origine: Italia-Francia, 1958; durata: 85’.

Trama:Il risultato del viaggio compiuto da Rossellini in India è questo documentario che parte da Bombay per addentrarsi verso i territori più nascosti della nazione alla scoperta di un mondo a parte.

Critica (1):Si tratta di un'ampia panoramica che mette in luce particolari aspetti geografico-turistici dell'India ed illustra usi e costumi di alcune comunità. Il documentario si sofferma a lungo sull'utilizzazione degli elefanti nel lavoro quotidiano, poi descrive Benares, la città sacra, e l'enorme diga di Hirakud; indi fa assistere lo spettatore ad un rogo funebre, e descrive la vita di un villaggio ai margini della giungla. Dopo aver accennato alle particolari difficoltà conseguenti alla siccità, indugia su alcuni elementi folkloristici.
A un esame non superficiale, India, il film di lungometraggio uscito nel 1959, piuttosto che il materiale cinematografico inserito nella serie di dieci trasmissioni televisive sotto il titolo L'India vista da Rossellini (materiale non troppo elaborato e spesso utilizzato per ragioni commerciali o d'opportunità) è opera così ricca di indicazioni poetiche, tecnico-espressive, linguistiche, strutturali, che può essere considerata - come infatti lo fu da certa giovane critica - un esempio eccellente d'un nuovo modo di far cinema.
India è il frutto di un lungo soggiorno in quel paese: viaggio di studio preparato fin dal 1955 e realizzato un paio d'anni dopo. Non si pensi con questo che il film sia il risultato di un'analisi sfaccettata e approfondita d'un paese nella sua complessa formazione umana e sociale, naturale e politica. Rossellini è fondamentalmente incapace di uno studio metodico, e voler vedere il suo film come una rappresentazione critica e compiuta dell'India significa snaturarne il significato, col rischio di non coglierne gli aspetti genuini e validi. A metà strada fra il documentario e il film a soggetto, con elementi ricavati direttamente da ambienti e fatti reali ed altri ricostruiti drammaticamente sulla base di una sommaria sceneggiatura, India non si presta alle schematizzazioni critiche, alle interpretazioni univoche, continuamente aperto com'è alle più varie sollecitazioni esegetiche nella misura in cui la sua struttura estetica è polivalente e persino ambigua, Occorre ancora una volta - come per la maggior parte delle precedenti opere rosselliniane - superare gli schemi critici consueti, cercare di intendere il valore dell'opera al di là delle formule spettacolari tradizionali, al di là dei generi cinematografici. Suddiviso in quattro episodi, o meglio in quattro blocchi narrativi che si sviluppano attorno a quattro temi principali, il film segue un tracciato per certi versi simile a quello di Paisà: la rappresentazione d'una realtà umana e sociale in una situazione data attraverso alcuni elementi privilegiati che ne fissano una sorta di visione emblematica e ricapitolatrice. Ma, come già in Paisà, questa emblematicità e questa ricapitolazione non si rivelano mai in questo quadro tipico e generalizzato; sono bensì colti come il risultato di fatti, storie e personaggi autonomi, immersi in una loro autentica singolarità.
Assistiamo al matrimonio di un contadino e della figlia d'un commerciante povero, all'addio che un operaio dà alla diga su cui ha lavorato molti anni, agli sforzi d'un vecchio per salvare una tigre dalla morte imminente, alle peregrinazioni di una scimmietta rimasta sola dopo la morte del padrone; e intanto osserviamo gli amori tra gli elefanti, la costruzione dell'immensa diga, la natura selvaggia, i costumi e le usanze indiane. Tutto ciò non nell'ambito di una visione «documentaristica» e magari folcloristica della realtà (non cioè secondo gli schemi del documentario esotico o di viaggi, in cui la realtà fenomenica o è vista nella sua apparenza o è costretta in una rigida interpretazione preordinata), ma secondo una prospettiva aperta, che dalla realtà passa alle sue motivazioni umane e sociali e da queste ritorna alla realtà in un continuo spostamento dell'angolo visivo, seguendo il filo d'un contatto partecipe con l'uomo e la natura, d'una intuizione folgorante, d'una osservazione intelligente e libera da preconcetti. È insomma il recupero del documentarismo alla Flaherty, non privo tuttavia d'un più scoperto intento narrativo che si manifesta in talune soluzioni di racconto, nella definizione di alcuni personaggi, nell'affabulazione di certe situazioni.
Rossellini, che è sempre stato restio, o incapace, a sviluppare sino in fondo un racconto articolato e conseguente secondo le migliori regole della narrativa, si è totalmente affrancato in India da preoccupazioni d'ordine drammatico e romanzesco, scegliendo la strada più libera del documentario. Tuttavia non ha rinunciato alla «storia» e ai personaggi; anzi, in una dimensione reale genuina e non manipolata, li ha calibrati su una «disponibilità» continua alle più varie interpretazioni e integrazioni: realistica, lirica, simbolica. Di qui le ambiguità, le contraddizioni, gli scompensi strutturali che al film sono stati addebitati; ma dì qui anche la straordinaria suggestione estetica, le illuminazioni folgoranti, il senso d'una realtà autentica, d'una verità esistenziale.
Ancora una volta il discorso di Rossellini scavalca le immagini del suo film, coinvolge problemi generali, riflette una visione del mondo essenzialmente individuale, persino mistica, e certamente religiosa, d'una religiosità se vogliamo «laica». Ma questo discorso non si sovrappone mai ai fatti; nasce da essi ma non li condiziona. La realtà si manifesta nella sua essenza di fronte a una cinecamera che non la forza, non la limita, bensì la esalta attraverso una attenta scelta di elementi rivelatori. L'uomo e la natura, sotto lo sguardo vigile del regista, si mostrano nel loro reciproco rapporto, sono visti nei loro aspetti significanti. Questo significato nasce tuttavia da una scelta precisa, è delimitato dal quadro che dell'uomo e della natura Rossellini ci dà attraverso inclusioni ed esclusioni di frammenti di realtà. Anche sul piano tecnico è visibile questa operazione selettiva, questo filtro che serve a far passare della realtà solo quegli elementi rivelatori, senza perciò impoverirla arbitrariamente. Così l'improvvisazione - elemento costitutivo della poetica rosselliniana - e la conseguente trascuratezza formale sono i punti di forza d'una rappresentazione realistica che, apparentemente libera e incondizionata, addirittura anarchica e gratuita, è invece ricondotta nei limiti d'un discorso coerente. (…) Detto altrimenti, Rossellini in India accentua il suo distacco dalla tradizione dello spettacolo cinematografico e porta alle estreme conseguenze quel suo disprezzo delle formule e quella sua urgenza di assoluta libertà espressiva, che già erano presenti nelle opere precedenti. In ciò è facilitato dalla natura stessa del film, concepito e più ancora fruito dallo spettatore come un ampio documentario etnografico, quindi come un film cronistico e non di finzione. Su tale sfondo di realtà descritta e percepita come autentica; infatti il documentario è immediatamente accolto come la riproduzione cinematografica d'una realtà non manipolata egli può elaborare la sua affabulazione del reale, o meglio quella provocazione e scelta di elementi rivelatori che costituiscono il suo modo di dare della realtà una rappresentazione prospettica e problematica. Il rischio è naturalmente quello (appunto) di scambiare per documentaria etnografico un'opera che è in primo luogo lirico-drammatica, ossia carica di un valore e di una funzione estetici che richiedono una particolare «lettura»; ma, a vedere bene, è il rischio che corrono tutti i film di Rossellini, sempre in bilico fra realtà e finzione, documento e affabulazione, saggio e racconto.
C'è anche da dire che India, molto più di Paisà a cui per alcune caratteristiche strutturali si richiama e al quale è stato paragonato, da un lato ha una struttura drammatica e narrativa in cui si trovano fattori compositivi di natura musicale, sia melodica sia armonica; dall'altro accentua quell'aspetto di trascuratezza formale, quasi di sciatteria artistica, che già avevamo incontrato in altri film. Dal che nasce una ulteriore ambivalenza estetica, una specie di ambiguità espressiva, che rappresenta al tempo stesso il limite spettacolare del film (in senso tradizionale) e il suo fascino come opera rinnovatrice e persino rivoluzionaria.
Della musicalità di India, intesa ovviamente come tendenza della struttura a seguire regole compositive propriamente musicali (un certo sinfonismo della narrazione, un procedere per temi e variazioni, uno sviluppo «melodico» del racconto in contrappunto con una rappresentazione «armonica» della realtà umana e naturale), si deve parlare nei termini d'un evidente superamento di posizioni stilistiche ancora legate a schemi formali tradizionali. In ciò ha forse influito la breve ma non trascurabile parentesi teatrale del 1953 con le regie dell'Otello verdiano e della Giovanna d'Arco al rogo honeggeriana, e la successiva trascrizione cinematografica di quest'ultima, in cui la musica, cardine della rappresentazione, determinò certe scelte stilistiche e tecnico‑espressive proprio sul piano della narrazione e della drammaticità. Una musicalità che si manifesta in una maggiore scioltezza delle riprese, meno ligie a dettami narrativi o drammatici, legate ­le une alle altre da corrispondenze tematiche, da affinità formali; una musicalità che accresce il lirismo dell'opera, senza tuttavia limitarne o condizionarne il realismo.
Quanto alla trascuratezza formale, che sembra in contrasto con la musicalità (la quale prevede una strutturazione del film su rigorose premesse estetiche), proprio essa trattiene India dal cadere nei trabocchetti del formalismo, nelle lusinghe della bella immagine, nei facili contrasti figurativi e ritmici del «sinfonismo» lirico o liricheggiante, di cui sono zeppi i documentari esotici o falsamente etnografici. Rossellini sfugge in India alle suggestioni dell'ambiente e alle sue straordinarie possibilità cinematografiche, spettacolari (cioè estetizzanti). Il film alterna pagine di intensa drammaticità, anche formalmente affascinanti, a pagine piuttosto squallide, mediocri, mal fotografate, di tipo cineamatoriale; meglio ancora le mescola, le confonde in un flusso continuo di immagini, in cui non è più possibile distinguere, se non attraverso un attento esame tecnico, formale, il bello dal brutto, l'elaborato dal rozzo. Questo «continuum» espressivo, che unifica elementi disparati, materiali diversi, tecniche differenti, si lega alla musicalità come struttura portante del film e crea quella compattezza che invano cercheremmo con un esame particolareggiato delle singole parti. La realtà umana e sociale dell'India, e il suo sfondo naturale, balzano così in primo piano proprio grazie a immagini grezze, immediate, genuine; ma, al tempo stesso, la quotidianità dei fatti e dei personaggi, la naturalezza dell'ambiente, rimandano, attraverso la struttura unitaria che livella i singoli momenti, al quadro d'insieme, alla visione generale. È un'alternanza di posizioni, dal particolare all'universale, dal documento alla finzione, dalla materia informe all'elaborazione formale, che consente una rappresentazione sfaccettata e problematica della realtà, che provoca una reazione attiva nello spettatore, che invita alla discussione e alla partecipazione personale.
Da tale punto di vista India anticipa quel tipo di cinema didascalico che Rossellini andrà teorizzando e praticando in anni seguenti e che lo porterà alla televisione, mezzo principe (ma non esclusivo) di diffusione della conoscenza. Un cinema di inchiesta ma anche di elaborazione dei dati, di informazione ma anche di critica, di documentazione ma anche di interpretazione della realtà. Un cinema che favorisce il contatto diretto tra lo spettatore e la realtà rappresentata, che tende a nascondersi dietro l'evidenza dei fatti senza tuttavia rinunciare a una scelta precisa (a una selezione del reale), che vuole operare una mediazione tra differenti. esperienze e conoscenze, promuovendo il superamento degli schemi interpretativi consueti e il richiamo continuo alla realtà fenomenica. Non sarà un cammino facile. Molti si riveleranno i limiti d'una tale esperienza culturale.
Roberto Rossellini, Il Castoro cinema, La Nuova Italia, 4/1974

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Roberto Rossellini
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