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Bagdad Café - Out of Rosenheim


Regia:Adlon Percy

Cast e credits:
Soggetto
: Percy Adlon; sceneggiatura: Percy Adlon, Eleonore Adlon, Christopher Doherty; fotografia:: Bernd Heinl; musica: Bob Telson; montaggio: Norbert Herzner; scenografia: Bernt Amadeus Capra, Byrnadette Di Santo; costumi: Elizabeth Warner, Regine Baetz; suono: Heinko Hinderks; interpreti: Marianne Sägebrecht (Jasmin), Cch Pounder (Brenda), Jack Palance (Rudy Cox), Christine Kaufman (Debbie), Monica Calhoun (Phyllis), Darron Flagg (Salomo Jr.), George Aquilar (Cahuenga), G. Smokey Campbell (Sal), Hans Stadbauer (Münnchgstettner), Alan S. Craig (Eric), Aspesanshkwa (sceriffo Arnie); produzione: Percy e Eleonore Adlon, per Pelemele Film/ Project Film BR/HR production; distribuzione: Mikado; durata: 110'.

Trama:Frau Jasmin Münnchgstettner, sulla rotta di Las Vegas, manda al diavolo marito e automobile e si avvia a piedi nel deserto del Nevada. Il primo luogo abitato che incontra è Bagdad Café, un motel sgangherato dove nulla funziona. Nemmeno il matrimonio della proprietaria, Brenda, che ha appena messo in fuga (anche lei) il marito. Qui dapprima tutti (o quasi) diffidano dell'imponente teutonica, ma alla fine tutti (o quasi) ne saranno conquistati.

Critica (1):Deserto. Strade che non finiscono mai. Motel con pompa di benzina, reception polverose e camere senza pretese. Relitti di umanità che l'onda della vita ha portato lì chissà da dove. Il vero West shepardiano sta a Bagdad Café come il corpo fuori misura alle delicate, ora tenere ora severe, sfumature della personalità di Marianne Sägebrecht. Una delle rare attrici in grado, oggi, di "fare" un film. Capace di far dimenticare la sua presenza fisica, non tanto grazie all'agilità delle movenze (dote, tra l'altro, abbastanza comune ai grassi del cinema) che le deriva dall'essere stata anche una campionessa di rock'n'roll, quanto per la dignità con cui porta il proprio corpo: opaco e pesante, ma contenitore e trasmettitore di un vissuto ricco e profondo.
Qui alla sua quarta esperienza con Percy Adlon (l'unico regista cinematografico con cui abbia lavorato), anche lui bavarese e legato agli ambienti off della cultura di Monaco, Marianne ha replicato il miracolo di Sugar Baby, il paradosso appare naturale, il grottesco diventa fiaba. Basta volerlo. In fondo, la magia può anche essere chiusa in una di quelle banali scatole "fai da te": leggendo con cura le istruzioni, e facendo molto esercizio, può funzionare. Questa è la doppia essenza di Jasmin. Volontà di ferro, piglio "maschile" nell'affrontare le situazioni: quando si avvia, da sola, nel deserto, fa pensare a certi irriducibili eroi del vecchio West pronti a ricominciare ogni volta daccapo. Ma Adlon, europeo affascinato, come tanti, dalla mitica terra d'America, non sembra attratto dalla lontananza degli orizzonti quanto invece abbagliato dalla luce di questo deserto. Dorata dai filtri che ne caricano le tonalità calde. Dilagante. E Jasmin non può che esserne la naturale creatura: un miraggio, seducente come tutte le illusioni. Ma anche stupefacente come può esserlo una signora di Rosenheim, stretta nel severo tailleur, con la piuma sul cappello e la valigia sbagliata che la costringerà a vestire abiti maschili (senza, peraltro, che questi due topoi della commedia, scambio di oggetti e travestitismo, vengano mai sfruttati in chiave comica) che arriva in un posto del Nevada chiamato Bagdad. Qui Marianne/Jasmin non è più sola, come in Sugar Baby a condurre il gioco. Deve fare prima di tutto i conti con l'altro "uomo" della situazione: il terremoto di nome Brenda. E poiché sono (colore della pelle a parte) come il bianco e il nero, il diritto e il rovescio, ma non (per usare un'espressione udita di recente in un altro film) come l'olio e l'acqua, è prevedibile che dopo le baruffe di prammatica tra loro subentri la pace: anzi l'autentica, classica, solidarietà "virile".
Questo è Bagdad Café n. 1 : per il lieto fine ufficiale il motel, diventato luogo di attrazione per tutti i camionisti, si addobba a palcoscenico per una festa hollywoodiana in piena regola. Musica e danze, frac e lustrini, commozione generale e giochi di prestigio. Anche il West avrà le sue mille e una notte. Ma l'autore, sornione, anticonformista e per nulla incline alle soluzioni americane, si e ci riserva un generoso margine di dubbio. Intanto c'è un personaggio che non ne vuole sapere di stare ai giochi: l'inquieta e inquietante Phyllis, esperta in tatuaggi, se ne va disgustata da quel posto dove ormai regna "troppa armonia". In più rimane il sospetto, mai dissipato, che nulla di tutto ciò sia vero, che Jasmin sia immateriale, soltanto sognata.
Prendiamo la sua storia d'amore con Rudi Cox/Jack Palance: nasce in un momento di trasfigurazione poetica, quando la "straniera" è l'unica, tra quanti sentono abitualmente Sal suonare il pianoforte, ad accorgersi che il Preludio e Fuga di Bach non è semplice rumore. Come non lo sono le urla del piccolo Sal Jr., né il vociare scatenato di Brenda e nemmeno lo scricchiolio degli stivaletti di Cox.
Anche gli sviluppi della love story si snodano intorno ad una finzione. Lui, ex pittore di Hollywood, esperto nella fabbricazione di illusorie prospettive, reinventa Jasmin facendole non uno, ma due, tre, sette ritratti. E nel corso delle sedute di posa, un quadro alla volta, la spoglia del tailleur, poi della camicetta bianca chiusa fino al collo, poi del bustino. In fondo l'amore non è altro che questo: scoperta, filtrata dalla fantasia. Condotta con pudore e sottile ironia (quando Jasmin è costretta a partire, prima del ritorno definitivo, il pittore espone nel bar il primo ritratto, quello in tailleur) questa spoliazione è il pretesto per andare oltre la facciata, per tentare di capire che cosa c'è in Jasmin che la rende diafana, eterea. I quadri di Cox non la "migliorano" affatto, anzi esaltano in maniera un po' naïve la deformità dei suoi contorni: che rimangono così sulla tela, mentre lei è tutt'uno con la rosa rossa che le è comparsa in mano per incanto.
Adelina Preziosi Segnocinema n. 35 novembre 1988

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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