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Passione di Giovanna d’Arco (La) - Passion de Jeanne d’Arc (La )


Regia:Dreyer Carl Th.

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo Vie de Jeanne d’Arc di Joseph Delteil e dagli Atti del processo di Giovanna d’Arco; sceneggiatura: Carl Th. Dreyer; consulenza storica: Pierre Champion; dialoghi: Yvan Noé; fotografia: Rudolf Maté; scenografia: Hermann Warm e Jean Hugo; costumi: Valentine Hugo; assistenti: Paul La Cour e Ralf Holm; musica (edizione muta): Victor Alix, Léo Pouget; interpreti: Renée Falconetti (Jeanne d’Arc), Eugène Silvain (Pierre Cauchon, vescovo di Beauvais), Maurice Schutz (Nicolas Loyseleur), Michel Simon (Jean Lemaître), Antonin Artaud (Jean Ladvenu, Massieu), Ravet (Jean Beaupère), André Berley (Jean d’Estivet, pubblico accusatore), Jean d’Yd (Guillaume Evrard), André Lurville, Jacques Arna, Alexandre Mihalesco, R. Narlay, Henri Maillard, Jean Aymé, Léon Larive, Henry Gaultier, Paul Jorge (giudici), Fernand Ledoux (un frate); produzione: Société Générale des Films; origine: Francia, 1926-28; durata: 84’.

Trama:Nelle sale del palazzo di Rouen, Giovanna assistita da Massieu, subisce l’interrogatorio di un tribunale ecclesiastico presieduto dal vescovo Cauchon; rifiuta di rispondere alle domande ed è ricondotta in cella. Qui riceve la visita del giudice Loyseleur che tenta di blandire Giovanna, mostrandole una falsa lettera del re Carlo VII. Un nuovo interrogatorio, ancora senza esito. Condotta dinanzi agli strumenti di tortura, Giovanna rifiuta di parlare e sviene. Le viene praticato un salasso. La fanciulla richiede l’ostia, ma i giudici gliela negano proclamandola indegna. Trascinata in un cimitero ormai allo stremo delle forze, Giovanna firma l’abiura che la salverà dal rogo, mentre la folla esulta. Dopo avere subito la rasatura del capo, marchio d’infamia, la pulzella fa richiamare Cauchon e ritratta l’abiura. È condannata a morire arsa viva. Massieu la prepara al trapasso. Giovanna riceve la comunione, sale sul rogo e brucia davanti al popolo. Scoppia una sommossa. Intervengono le truppe inglesi e la sollevazione è rapidamente repressa.

Critica (1):La Passion de Jeanne d'Arc di Carl Dreyer fu rappresentata per la prima volta nell'aprile del 1928 a Copenhagen e circa una settimana più tardi a Parigi. Non si conosce la musica che accompagnò la prima proiezione danese, ma per la proiezione parigina essa fu composta da due musicisti francesi, Leo Pouget e Victor Alix (essi avevano collaborato lo stesso anno componendo la partitura di un altro film, Shéhèrazade di Alezandre Volltoff). Per ragioni che non si conoscono, una partitura per piano e canto e quattro parti per strumenti a corda della composizione furono pubblicate non da un'editore francese, bensì da una Casa americana, l'Editions Musicales Sam Fox di Cleveland e Parigi, e furono depositate per il copyright alla Library of Congress (attualmente è conservata alla Bibliothèque Nationale soltanto la partitura per piano e canto). Nella proiezione di Parigi del 1928 il film fu censurato: i tagli riguardavano scena del salasso e alcuni altri brevi frammenti anticlericali, circa cinque minuti in tutto. Di conseguenza la partitura pubblicata, relativa alla proiezione parigina, non comprende la musica di queste parti mancanti, presenti invece nella copia danese che ha poi normalmente circolato (per coprire le parti mancanti vengono ripetuti alcuni brani della partitura). Al contrario di molte partiture dell'epoca del muto, che sono divise in numerose brevi sezioni, i 90 minuti di composizione di Leo Pougete Victor Aliz sono divisi in 13 parti principali, che sottolineano il carattere, esplicito o implicito, di ognuna delle principali sequenze strutturali del film. La composizione è scritta nello stile pseudo-gotico della musica drammatica francese di fine ottocento (molte quinte aperte negli accordi e formule di cadenza armonica in stile gotico). Sono presenti molte belle melodie e molti motivi ritmici e melodici ben scelti a complemento delle immagini sullo schermo. Ad esempio, all'inizio del film, quando i giudici della corte clericale bisbigliano uno nelle orecchie dell'altro, il ritmo della musica suggerisce il passaggio di informazioni da un personaggio all'altro. La scena (chiamata "Grotesque" nella partitura) in cui i carcerieri tormentano Jeanne è accompagnata da un incalzante motivo del basso, ripreso dal soprano, che sottolinea i colpi che i carcerieri infliggono a Jeanne, ed è seguito da una dolce melodia che accompagna l'intervento di Artaud, mentre sottrae Jeanne alla crudeltà dei carcerieri. Ancora, nella scena in cui a Jeanne vengono tagliati i capelli, la musica sottolinea l'avvenimento e contemporaneamente l'atmosfera esterna. Ma ancor più della parte strumentale, è la parte vocale che fa di questa composizione qualcosa di particolare e, al tempo stesso, caratteristico della sua epoca. (...) Particolarmente se eseguita con grande orchestra, solisti e coro (come avvenne per la prima proiezione), questa partitura rientra pienamente nella tradizione drammatica dell'epoca romantica, cosa che a molti sembra antitetica all'intimità senza tempo delle immagini del film, quasi tutti primi piani. Probabilmente chi è abituato a La Passion di Jeanne d'Arc in versione muta troverà questo accompagnamento tardo-romantico inadatto allo stile del film (Dreyer stesso ha confessato a Eileen Bowser del Moma di preferire il film senza accompagnamento musicale). Tuttavia, chi non ha mai visto il film lo troverà forse molto più accessibile proprio grazie a questo accompagnamento romantico. Questa esecuzione è adattata per piano, organo/sintetizzatore, due violini, violoncello, contrabbasso e sei cantanti: speriamo di avvicinarci così all'intimità dei primi piani del film.
Gillian Anderson

Critica (2):Ancora una volta Dreyer rimette in causa (il suo modo di fare) cinema. Rifiuta le gratificazioni del "già fatto", e sceglie l'ipotesi della sperimentazione a oltranza. La Passion è una scommessa su e dentro il corpus linguistico della scrittura: impresa tanto più rischiosa quanto più rifiuta gli schemi della convenzionalità narrativa, del racconto inteso come ripetizione e conferma dell'assunto tematico, ossia come percorso prevedibile che riconduce a una totalità chiusa e definita. Anche se la tragedia di Jeanne è già tutta detta (narrata negli Atti del processo che scandiscono l'evoluzione della vicenda), il film non si cristallizza in un racconto predeterminato, ma si traduce in articolazione dinamica dello spazio, intervento creativo sul segno, manipolazione sistematica della visione. La Passion diviene allora l'esplicitazione di costrizioni e di anomalie comportamentali, di cedimenti psicologici e di manifestazioni sadiche, secondo la tensione dinamica di una scrittura che esalta, nella molteplicità delle soluzioni linguistiche, il potenziale semiotico degli ambienti e dei gesti. Sotteso da questo criterio linguistico-formativo, la Passion ripropone il problema del realismo, individuato e variamente risolto nei film precedenti. Ma lo ripropone in modo più radicale, nei termini di un manifesto programmatico. Ossessionata dal principio dell'autenticità storico-culturale e delle ricostruzione puntuale degli ambienti (si veda l'uso "realistico" degli oggetti: gli elmi d'acciaio dei soldati, i cinturoni, le lance, gli occhiali di tartaruga di uno dei giudici, lo sgabello su cui è seduta Jeanne, ecc..), la visione cinematografica non si lascia più sommergere dalla molteplicità del materiale profilmico. Anzi, le cose sono presentate con scrupolosa attenzione alla "verità" fotografica che le caratterizza solo per superarne lo statuto di oggetti, e mettere in rilievo il surplus semantico, il senso. Il film risulta pertanto strutturato come uno spazio di secondo grado, dove il significato funziona come il significante di un significato nuovo, poiché un oggetto (o un comportamento) vale per altro, rappresenta altro. Il regista non si limita a riprendere le varie componenti del profilmico, ma le riordina, le ricostruisce. Ottiene così, attraverso la manipolazione del dato la "trascendentalità" della visione; ossia, una seriosi autonoma che obbedisce alle leggi specifiche del cinema. La Passion chiarisce in tal modo un punto essenziale del cinema dreyeriano: individua la presenza operante, all'interno di uno stesso film, dei motivi antitetici del realismo e dell'allusività, o, se si preferisce, del cinema come fantasma verosimile e del cinema come universo della finzione.
Pier Giorgio Tone, Dreyer, Il Castoro

Critica (3):Il film ha unità di tempo, di luogo e d'azione. Una mano sfoglia il protocollo del processo a Jeanne d'Arc, si ferma su una pagina, e la storia comincia. È il 30 maggio 1431, siamo nella rocca di Rouen; si narrano gli ultimi interrogatori, la tortura, la condanna e la morte sul rogo di Jeanne. In una cappella del castello Jeanne si presenta di fronte a trentasei giudici, e l'interrogatorio inizia. La strategia del vescovo Cauchon e degli altri prelati sta nel farle ammettere di essere in stato di grazia per diretta rivelazione divina, e farle così pronunciare una bestemmia punibile con la morte. Jeanne elude tali tentativi e viene ricondotta in cella. Va a vuoto anche un secondo tranello, orchestrato dal prelato Loyseleur d'intesa col governatore inglese Warwick. Jeanne viene portata nella stanza della tortura. Qui, sotto la minaccia dei terribili strumenti, viene invitata a firmare un'abiura, che potrà risparmiarle la vita. Jeanne rifiuta e sviene. Febbricitante nella sua cella, chiede i sacramenti. Cauchon acconsente a patto che firmi l'abiura, ma Jeanne rifiuta di nuovo. Un terzo tentativo di pubblica abiura viene fatto conducendola nel cimitero. Questa volta la paura della morte sul rogo induce Jeanne a firmare; la pena capitale è commutata in carcere a vita. Ricondotta in cella, Jeanne comprende di aver sbagliato, fa chiamare i giudici e revoca la propria confessione, affermando di essere l'inviata del Signore. La condanna al rogo viene eseguita; il popolo si solleva. L'intento di Carl Theodor Dreyer è di rappresentare non l'eroina o la santa, ma una ragazza di diciannove anni, analfabeta, che combatte da sola con la sua fede un'impari battaglia contro scaltri e navigati prelati. E l'unico modo adeguato di raccontare tale confronto è per il regista una costruzione ossessiva di primi e primissimi piani, usati come "fattore d'urto" (C. Th. Dreyer). Il film è passato alla storia del cinema per questa scelta stilistica, quasi uno studio del volto umano, in particolare grazie alla superba recitazione di Renée Falconetti e alla fotografia di Rudolf Maté. Ogni inquadratura si offre come un ritratto su uno sfondo bianchissimo (tutti gli interni furono dipinti di giallo). Ma il film è anche un inno alla libertà della macchina da presa. Le 1.510 inquadrature sono orizzontali, dal basso, dall'alto, supine, a piombo, rovesciate, oblique, soggettive; Dreyer rompe con la regola dei 180° offrendoci un mosaico in movimento in cui il volto è scomposto in modo quasi cubista. Il risultato è una cascata di immagini dal ritmo vertiginoso, in cui tuttavia mai si perde la logica unitaria della scena. Nell'assenza di un vero intreccio e avendo a che fare con una materia nota ai più, il racconto si svolge negli sguardi: il film è "puro sguardo" (E. Kau), pura visione. Negli sguardi di Jeanne vediamo tutti gli stadi del suo percorso psicologico: lo sbigottimento, l'umiliazione, la speranza, l'ispirazione, la disperazione, la ribellione, la sofferenza, l'orgoglio, il terrore, l'abbandono. Ed è ancora negli sguardi che vediamo l'atto della comprensione di sé e dell'altro: la prima consapevolezza di sé e del proprio dolore alla vista della croce come ombra della grata sul pavimento; la consapevolezza del proprio desiderio di vita alla vista dei vermi in un cranio; la definitiva consapevolezza di sé alla vista della croce di paglia che viene buttata insieme ai suoi capelli; la comprensione di sé vista dall'altro nello sguardo di Massieu; la comprensione del destino storico di lei negli sguardi del popolo; fino alla comprensione che si fa inconscio collettivo nello sguardo di un lattante. Singolare è anche l'equilibrio e il ritmo tra immagini e didascalie, tanto da indurre Dreyer ad affermare che La Passion de Jeanne d'Arc è già un film parlato. L'opera di Dreyer è andata incontro a un ormai leggendario destino materiale. Ultimato il montaggio, due copie furono inviate a Copenaghen, dove il film, con il titolo Jeanne d'Arc's Lidelse og Død, ebbe prima mondiale il 21 aprile 1928; ma di esse, dopo soli dodici giorni di programmazione, si persero le tracce. Alla prima ufficiale a Parigi, il 25 ottobre, il film giunse invece tagliato dopo due successivi interventi di censura. A dicembre, un incendio distrusse il negativo originale conservato alla UFA di Berlino. Dreyer montò quindi una nuova versione sulla base del materiale non utilizzato, ma anche questa copia parve in seguito persa. Nel 1952 J. M. Lo Duca trovò presso Gaumont probabilmente proprio questa copia, che usò per confezionare una versione con musiche da lui scelte e didascalie sullo sfondo di vetrate e colonne di dubbio gusto. Fu questa l'edizione da allora più vista, benché Dreyer la definisse "orribile". Fino a che nel 1981, in un ospedale psichiatrico presso Oslo, fu trovata in un pacco una delle due copie copenaghesi, con tanto di nullaosta della censura danese. I 2.210 metri della pellicola montata da Dreyer potevano essere mostrati per la prima volta dal 1928. Lo studioso americano Tony Pipolo afferma tuttavia che la copia di Oslo è sostanzialmente uguale a un'altra copia che il MoMA di New York ottenne nel 1939 dalla Cinémathèque française, forse sulla base della copia di lavoro di Dreyer. Uno studio critico comparativo di tutte le versioni disponibili della Passion de Jeanne d'Arc manca ancora. Lo spettro delle interpretazioni critiche è amplissimo, dalla celebrazione come uno dei massimi capolavori della storia del cinema a giudizi severi, quale quello di cercare "la forma per la forma" (R. Arnheim). Dreyer stesso sentiva "di essere andato troppo oltre" nell'impiego "monomaniacale" dei primi piani.
Ettore Rocca, da Dizionario critico dei film, Treccani/Cineteca di Bologna

Critica (4):I nostri lettori parigini hanno un enorme privilegio: possono vedere o rivedere al Cinema d’Essai La Passion de Jeanne d’Arc di Carl Dreyer. Certo, fortunatamente, i cineclub hanno da oltre quattro anni diffuso questo film in provincia, ma la copia che viene proiettata attualmente al Cinéma d’Essai rende al capolavoro di Dreyer una nuova verginità. È stampata sul negativo originale, miracolosamente ritrovato alla Gaumont, tra spezzoni di pellicole sonore, mentre lo si pensava distrutto. E non vi è forse film in cui la qualità materica della fotografia abbia maggiore importanza. La Passion de Jeanne d’Arc è stata realizzata in Francia nel 1928 dal cineasta danese Carl Dreyer, con attori ed équipe francesi. Tratto, in origine, da una sceneggiatura di Joseph Delteil, il film è, in realtà, ispirato direttamente e fedelmente agli atti del processo, ma l’azione è condensata in una giornata, secondo i dettami della tragedia che non la falsano minimamente. La Jeanne d’Arc di Dreyer resta memorabile negli annali del cinema per l’audacia della fotografia. A parte qualche immagine, il film è interamente composto da primi piani, per lo più di volti. Questa tecnica rispondeva a due finalità apparentemente contrapposte: misticismo e realismo. La storia di Jeanne, così come ce la presenta Dreyer, è priva di ogni riferimento aneddotico, è un puro conflitto di anime, ma questa tragedia esclusivamente spirituale, in cui ogni azione è interiore, si esprime totalmente per il tramite di quel luogo privilegiato del corpo che è il viso. Mi spiego meglio. L’attore si serve del suo viso per esprimere i propri sentimenti, ma Dreyer ha preteso dai suoi interpreti qualcosa di più e di diverso dalla semplice recitazione. Vista così da vicino, in primissimi piani, la maschera dell’attore si spezza. Come ben scriveva il critico ungherese Béla Balàz: “La camera penetra in tutte le pieghe della fisionomia: più del viso che ci si è costruiti, essa scopre il viso che uno ha... Visto così da vicino, il viso umano diventa un documento”. È il paradosso fecondo, l’insegnamento inesauribile, di questo film in cui l’estrema essenzialità spirituale si sprigiona dal realismo più scrupoloso, sotto il microscopio della camera. Dreyer ha vietato ogni maquillage, i crani dei frati sono effettivamente rasati ed è davanti a tutta la équipe in lacrime che il carnefice taglia realmente i capelli alla Falconetti, prima di condurla al rogo. Non si trattava affatto di una autentica tirannia. A ciò si deve il sentimento inesauribile di traduzione diretta dell’anima. La verruca di Silvain (Cauchon), le efelidi di Jean d’Yd, le rughe di Maurice Schultz sono consustanziali alle loro anime, significano più della loro recitazione. È quello che ci ha dimostrato di recente Bresson, una ventina d’anni dopo, con il Diario di un curato di campagna. Ci sarebbe ancora molto da dire su questo film, uno degli incontestabili capolavori del cinema. Vorrei solo fare ancora due osservazioni. E per prima questa: Dreyer è, forse, con Eisenstein, il solo cineasta la cui opera eguagli in dignità, nobiltà e possente eleganza i capolavori della pittura e non soltanto vi si ispira, ma più sostanzialmente perché ne ritrova il segreto a uguali profondità estetiche. Non dobbiamo avere false modestie nei riguardi del cinema: un Dreyer è equivalente a un grande pittore del Rinascimento italiano o della scuola fiamminga. La seconda osservazione è che a questo film manca soltanto la parola. La sola cosa che denuncia il tempo è l’introduzione delle didascalie. Dreyer d’altronde si è rammaricato di non poter utilizzare il suono, ancora balbettante nel 1928. A coloro che pensano ancora che il cinema ha tradito la sua essenza mettendosi a parlare, non c’è che da opporre questo capolavoro del cinema muto, già virtualmente parlante.
André Bazin, Radio-Cinéma, 1952
Carl Th. Dreyer
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