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Caduta degli Dei (La)


Regia:Visconti Luchino

Cast e credits:
Soggetto: Nicola Badalucco; sceneggiatura: Nicola Badalucco, Enrico Medioli e Luchino Visconti; fotografia (Technicolor, Techniscope): Armando Nannuzzi e Pasqualino De Santis; scenografia. Enzo Del Prato; architetto: Pasquale Romano; costumi: Piero Tosi e Vera Marzot; musiche: Maurice Jarre; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Ingrid Thulin, (baronessa Sophie von Essenbeck), Dirk Bogarde (Friedrick Bruckman), Helmut Griem (Aschenbach), Helmut Berger (Martin von Essenbeck), Renaud Verley (Gunther on Essenbeck), Charlotte Rampling (Elisabeth), Reinhard Koldehoff (barone Kostantin von Essenbeck), Umberto Orsini (Herbert Thalmann) Florinda Bolkan (Olga), Albrecht Schoenals (barone Joachim von Essenbeck), Nora Ricci (la governante), Irina Wanka (Lisa Keller), Valentina Ricci (Thilde), Karin Mittendorf (Erika), Wolfgang Hillinger; produzione: Alfred Levy e Ever Haggiag per la Presideus, Pegaso, Italnoleggio - Roma/Eicheberg Film, GMBH-Munich; distribuzione: Italnoleggio; origine: Italia, Germania Federale, 1969; durata: 150'.

Trama:
Benché non nutra alcuna simpatia per il nazionalsocialismo, il Barone Joachim von Essenbeck decide di sostituire alla vicepresidenza delle sue acciaierie il prode antinazista Herbert con Konstantin, iscritto alle SA. Herbert lascia la Germania, ma Friedrich - dirigente delle acciaierie e amante della vedova Sophie, nuora di Joachim - uccide quella notte stessa il Barone, facendo ricadere la colpa su Herbert. Sbarazzatosi del rivale Konstantin - vittima dell'epurazione delle SA decisa da Hitler per ingraziarsi l'esercito -, Friedrich non conquisterà il potere tanto agognato: troppo tiepido verso i dirigenti SS, verrà messo da parte a favore di Martin, figlio di Sophie, che aderirà all'Ordine di Himmler e metterà l'impresa familiare a totale disposizione del nuovo regime.

Critica (1):A contatto con un tema di complessa, ardente, terrificante precisione storica, Visconti ha ritrovato la concentrazione linguistica dei suoi grandi momenti narrativi - dei momenti, cioè, nei quali il suo talento figurativo, anzichè venir "esibito", è rigorosamente funzionalizzato (come in La terra trema, come in Bellissima) - nel senso di una generale significazione e resa espressiva. Come ho accennato, si deve supporre che a far ritrovare a Visconti la sua grandezza sia stato l'incontro con un poderoso groviglio tematico che non tanto è "congeniale" alle attitudini del regista, quanto piuttosto è centrale e portante rispetto alla cultura e alla coscienza contemporanee La caduta degli dei (nel cui titolo è evidente, fra l'altro, un accenno all`"ideologia" wagneriana; ma la musica di Wagner, assai significativamente, figura nel sonoro del film solo con un motivo rozzamente stonato da un ubriaco) è infatti la storia - allucinante, cupa e cruenta come un dramma elisabettiano - della distruzione e del trionfo di una dinastia di grandi industriali tedeschi, fabbricanti di cannoni (ogni riferimento reale è, si capisce, strettamente voluto). Distruzione e trionfo che hanno, non solo come sfondo, ma come "materia", l'ascesa al potere del nazismo e della sanguinaria, ma non casuale follia. Un'analisi, anche affrettata dello sviluppo del racconto richiederebbe molto spazio e riuscirebbe inevitabilmente inerte. È sufficiente, spero, ricordare che la cifra narrativa dell'opera deriva da una sorta di incrocio fra tragedia elisabettiana (come accennavo prima) e romanzo giallo: spazio ricchissimo e vorace, nel quale precipitano e si integrano mirabilmente molti altri riferimenti culturali, da Thomas Mann al Richard Hughes della "Volpe nella soffitta" e al Dostoevskij dei "Demoni"; un intero episodio, quello dei rapporti tra il corrotto rampollo della grande famiglia e la bambina ebrea che si impicca dopo essere stata oltraggiata, che si rifà in termini letterali al personaggio di Stavrogin. L'intrigo è fittissimo e magistralmente "tenuto"; i grandi episodi ispirati alla storia (l'incendio del Reichstag, la notte dei lunghi coltelli) entrano nel racconto con perfezione di incastri e fungono da essenziali raccordi. Non c'è un attimo, nel film, che segni cadute o involuzione del suo slancia tragico e della sua tensione storica. Non credo davvero di esagerare supponendo che ci troviamo di fronte a uno dei più bei film di Visconti (il più bello, credo, con La terra trema) e a uno dei pochi, pochissimi capolavori del cinema italiano degli anni Sessanta.
Giovanni Raboni Critica Reprint, n. 8 ott. 1969

Critica (2):Si potrà discutere certo della reale rispondenza o efficacia di questa gigantografia psicologica e patologica ai fini di una lucida analisi, ma soprattutto di un'analisi completa, del fenomeno nazista. Il film di Visconti risulterebbe antiquato e fondamentalmente "esterno". Ma esterno non vuol dire estraneo: anzi e più che notevole il fatto che per ricostruire le proprie strutture narrative e scenografiche, andate pressochè dissolte nelle ultime prove, il nostro regista abbia sentito il bisogno di rifarsi a quel periodo storico e di concentrare, energicamente e senza equivoci, la propria violenza spettacolare su una condanna ch'egli avverte (e come dissentire da
lui?) ancora necessaria. E anche del linguaggio dell'opera si potrà e si dovrà discutere. Ancora una volta, a un decennio dal duello tra La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli, i due miti nostrani, Fellini e Visconti, tornano a sfidarsi. Forse in questo caso, nonostante i due temperamenti così agli antipodi, certe affinità prevalgono sulle dissimiglianze. Valendosi di nuovi sceneggiatori (di Bernardino Zapponi il primo, di Nicola Badalucco il secondo), entrambi i registi fanno vistosamente prevalere le proprie ossessioni personali sulla materia storica affrontata. Il che, se non può stupire nel Fellini del Satyricon, che non fa i conti con la romanità ma con se stesso, può lasciare alquanto perplessi in Visconti, per il quale la storia ha sempre avuto, da Senso al Gattopardo, un posto di privilegio. In quale misura il linguaggio impiegato ne La caduta degli dei lo distanzia dalla storia? Ecco, questa volta il ritmo e più veloce, più conciso del solito; ne fa fede il bellissimo inizio del film, misurato ed essenziale. Ma quanto più si procede, quanto più ci si inoltra nei meandri (non onirici come in Fellini, ma almeno espressionistici) del racconto, tanto più si avverte un'impressione di esteriorità, perfino in certi casi di grossolanità. E allora scopriamo che le necessità e i condizionamenti della superproduzione cosmopolita forse gli suggeriscono, per rivolgerlo a suo preciso scopo, un ritmo all'americana che da un lato gli offrirà probabilmente una maggiore presa sul grosso pubblico, e dall'altro gli frena le impennate, gli spettacolosi pezzi di bravura, rendendolo stilisticamente uniforme e didascalico.
Ugo Casiraghi, Critica Reprint n. 8 ott. 1969

Critica (3):

Critica (4):
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