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Kansas City - Kansas City


Regia:Altman Robert

Cast e credits:
Soggetto
: Robert Altman, Frank Barhydt; sceneggiatura: Robert Altman, Frank Barhyd; fotografia: Oliver Stapleton; musiche: Hal Willner, Sue Jacobs; montaggio: Geraldine Peroni; interpreti: Harry Belafonte (Seldom Seen), Steve Buscemi (Johnny Flynn), Jennifer Jason Leigh (Blondie O’Hara), Michael Murphy (Henry Stilton), Miranda Richardson (Caroline Stilton), Brooke Smith (Babe Flynn); produzione: Robert Altman; distribuzione: Cecchi Gori; origine: Usa / Francia, 1996; durata: 115’.

Trama:A Kansas City, nel 1934, la giovane Blondie O’Hara vuole a tutti i costi salvare il proprio marito, piccolo gangster finito nelle mani del boss nero Seldom Seen. Per raggiungere lo scopo prende in ostaggio Caroline, la moglie di Henry Stilton, deputato e consigliere del presidente, e la tiene con sé minacciando di continuo il marito, se non otterrà quanto richiesto. La tensione cresce perchè i protagonisti cercano di non contrariare Blondie per convincerla che tutto finirà bene. Quando la ragazza torna a casa, le viene restituito il marito ma in realtà ferito a morte. Mentre è stesa piangente sul suo corpo, Caroline estrae la pistola e la uccide. Fuori l’aspetta in macchina Henry, e insieme vanno via.

Critica (1):Si sa bene quanto abbia nociuto ad Altman avere fatto un film come Nashville più di 20 anni fa: da allora ogni sua pellicola ha dovuto subire un confronto col “capolavoro”. E indipendentemente dal fatto che negli anni ’80 Altman abbia non di rado girato delle pellicole proprio brutte, altrettanto spesso la bontà di quelle riuscite non è stata riconosciuta come forse avrebbe dovuto proprio a causa di quell’inevitabile comparazione. (...) In certo modo un rischio simile lo corre anche Kansas City – non a caso accolto con poco calore all’ultimo festival Cannes – ma soltanto se ci si intestardisce ad intenderlo come un sottoprodotto della (supposta) unica opera inarrivabile del genio altmaniano.
Kansas City è solo in apparenza costruito seguendo la stessa struttura a macchia d’olio di Nashville (e se è per questo anche del meno straripante – e bellissimo – California Poker). Quello era un affresco nel quale ogni storia era calibrata in termini paritetici alle altre, nessuno vi emergeva come protagonista, lasciando alla città e al festival questo metaforico ruolo. Kansas City ha invece un referente fisso: la coppia di donne che peregrina per la città, coinvolta nello strano, aberrante festival politico che vedrà il giorno seguente le elezioni vittoriose di Roosevelt al suo primo mandato, nel 1933, conferendo alla pellicola una struttura picaresca fornita di precise costanti e varianti.
È una differenza importante perché comporta, ovviamente, un accentramento di interesse sulla loro vicenda, che inevitabilmente surclassa ed emargina i molti spunti potenzialmente concessi da tutti gli altri personaggi e luoghi del film: a un punto tale che viene istintivo lamentare il mancato sviluppo di un personaggio come quello di Johnny (il marito di Babe, proprietario del locale “The Ship”, interpretato da Steve Buscemi) o come quello del ragazzo nero che raccoglie Pearl alla stazione e se la porta dietro per una giornata. Il fatto è che ogni personaggio esiste in funzione della storia attivata dal rapimento della Sig.ra Stilton. Persino coloro che ne rappresentano l’antefatto appaiono nel film soltanto dopo che la piccola operatrice della Western Union (la prima volta che la vediamo sul luogo di lavoro, si noti, appare dietro a delle sbarre) si è portata via la moglie dell’uomo politico, come si rileva chiaramente dagli intermittenti flashback che seguono la sequenza d’apertura. Sequenza, peraltro, di notevole tensione ed organizzata con una tonalità noir degna di James Hadley Chase, nella quale però Altman si diverte ad inserire un elemento gotico che ne spezza il sistema di aspettative tipico del genere per assumere un’imprevista sfumatura horror (quel tuono sinistro che sottolinea il suo momento di maggior tensione), poi subito abbandonato.
Altman tuttavia persegue il suo usuale discorso sostanzialmente apocalittico anche in un contesto narrativamente più ordinato come questo. E non tanto attraverso la frammentazione cronologica in un primo tempo dovuta all’uso del flashback ed in un secondo momento alla parcellizzazione della storia (delle storie), quanto perché appare subito chiaro che anche qui egli dipinge un universo impazzito. Alle apparenze fornite dalla retorica del film di genere fa contraddittorio riscontro il rapporto che subito (non) si instaura fra le due donne.
Non c’è una battuta fra di esse che venga immediatamente intesa dall’altra, le richieste di precisazioni, chiarimenti, ripetizione di frasi e affermazioni accompagnano ogni più semplice frase profferita dall’una o dall’altra. Come sua abitudine, Altman è abilissimo a costruire modelli che nei suoi piani sono destinati a svilupparsi in modo da frustrare le attese dello spettatore. Così come all’inizio ci aveva fatto piombare in pieno noir, mano a mano che la storia si protrae ecco che le due donne non parlano semplicemente due lingue diversi ma si evidenziano come abitanti di universi che non possono entrare in contatto al punto da non riuscire a comunicarsi nemmeno l’osservazione più banale, il sintagma più essenziale. Subentra allora un altro modello d’attesa: quello dell’intesa fra donne, o per meglio dire quello di un’ “educazione” della Stilton attraverso i quadri di vita, d’ambiente e di persone che il viaggio delle due per Kansas City le sottopone. E al tempo stesso un ammorbidimento di Blondie, della cui determinazione incominciamo a pensare che in fondo è soltanto un maschera imposta dalla parte che si è scelta. Per questo guardiamo con simpatia all’inversione dei ruoli, quando è la Stilton a fungere da parrucchiera per l’altra, perfetto pendant della dichiarazione di schiavitù che l’altro Johnny fa al nero Seldom Seen. E tutto questo mentre sullo sfondo quella che ritenevamo la forte, tenace America rooseveltiana si dà a violenze barbare in vista delle elezioni locali del 1934, sino a giungere all’omicidio in stile gangsteristico dell’unico legalista che circola per il film: altra componente che frustra le nostre esperienze (e negli anni ’70 ne abbiamo avute di innumerevoli) in fatto di cinema “politico” anni ’30: almeno da America 1929: sterminateli senza pietà di Scorsese i violenti e gli assassini erano per tradizione dalla parte dei padroni e non del “comunista” Roosevelt.
Ma attenzione: l’universo impazzito di Altman non è un’altra dichiarazione sulla follia del mondo. L’incapacità di intendersi e di comprendersi nell’universo di Kansas City ha radici e ragioni precise (addirittura un suo ordine) perché in effetti si tratta di un universo binario, persino parallelo, nel senso che in esso ogni cosa è organizzata in modo da rinviare a un suo doppio esattamente opposto e perciò stesso inattingibile.
Tutto ci viene presentato a coppie oppositive: bianchi e neri, certo, e naturalmente ricchi e poveri, ma anche due bar (quello nero e “The Ship”), due Johnny, due sorelle, due attrici (la Crawford e la Harlow), due sax e due contrabbassi che dialogano e si contrappuntano. La Stilton dice addirittura di essere affascinata dal fatto che sia Blondie che la sorella sono ambedue sposate con un Johnny (la memoria corre alle varie Barbara di California Poker...). In realtà, a sua volta, la musica jazz ha qui una funzione oppositiva a questo modello: essa è infatti l’unica componente della pellicola presentata come produzione di armonia, di intesa, e in definitiva di ordine. L’annunciato duello fra Lester Young e Coleman Hawkins (“The Battle of Jazz”), anzi, segue immediatamente quello nell’auto fra la rapitrice e la sua vittima cui abbiamo appena assistito: dialogo, peraltro, fondamentale, perché chiarisce perfettamente non tanto la differenza fra le due donne quanto, come si diceva, l’impossibilità intesa fra di esse. L’una proclama il suo amore per Jean Harlow, l’altra la trova volgare. Non si tratta di gusti personali, qui a confrontarsi sono due universi: l’uno imbottito di cultura popolare, di film, di riviste pulp («True Detective»), di comics («Mi chiamo Blondie: non li legge i fumetti?»), l’altra che volutamente ne ignora l’esistenza («Non vado mai al cinema») e che li rifiuta con disgusto trovando nel laudano – un’abitudine che denuncia le radici della sua classe nel secolo precedente – ciò che può sopire le angosce ed annebbiare la mente. Ma delle due è la prima ad essere capace d’amore (tutto il film nasce anzi da un suo istintivo, folle, pervicace atto d’amore, anche se viene il dubbio che esso nasca dai modelli forniti da quel cinema che in parecchi, Altman compreso, in Kansas City sembrano disprezzare), mentre la Stilton – il cui nome, ricordiamolo, è quello di un formaggio tanto pregiato quanto marcio e maleolente – una volta posta a confronto con una simile forza e motivazione, sa rispondere soltanto che è ora di dormire.
Dunque, Altman da un lato evidenzia la fragilità e la risibilità della cultura di massa e dall’altro critica quello che classisticamente le si oppone; da un lato fa dire a Seldom Seen che Johnny ha visto troppi film con dei negri, i quali vi figurano sempre come dei “cacasotto”, e che i bianchi si inventano quelle “stronzate” e poi ci credono (e subito vediamo sullo schermo Clark Gable e Jean Harlow in un rimo piano di Hold Your Man); dall’altro ci sottopone un personaggio alto-borghese che sembra uscito dritto dalle pagine del primo Faulkner (non è la Stilton molto più aderente a un’ideale immagine adulta della protagonista di «Santuario», Temple Drake, di quanto non lo fosse lo stesso personaggio nella poco riuscita sequel del 1951, «Requiem per una monaca», una brutta riduzione della quale era stata girata a Hollywood dall’omonimo di Miranda Richardson, Tony?), e che del resto in perfetto stile faulkneriano si comporta quando alla fine, liberatasi d’un tratto di ogni nebbia mentale, spara fredda e decisa alla ragazza che le chiede aiuto piangendo sul corpo insanguinato di Johnny: ancora un momento che ribalta ogni attesa creata nello spettatore sino a quel punto. Ma non è un aiuto quello che la donna porge alla ragazza, non è una morte pietosa. Finito il laudano, la cui boccetta cade per terra (ma qual è il rapporto di causa ed effetto?), la Stilton assume un imprevedibile atteggiamento di serietà e determinazione, e quel non eliminare le impronte digitali dalla pistola scegliendo l’ultimo disprezzo di pulirsi le mani come dopo una bisogna disgustosa ma necessaria, la dice lunga sulla profondità della differenza fra i due universi. La sua ultima, straordinaria battuta – «Oggi non ho votato» – è una frase chiave per intendere la formidabile metafora che regge e sostanzia l’intero film, storia di un mondo nel quale la variegata gamma degli avvenimenti è soltanto uno specchietto per le allodole, il modo più diversivo per difendere l’immutabilliità della struttura: alla fine di questo complesso e doloroso dramma, mentre sullo sfondo intendiamo non a caso le note di «Solitude», tutto continua come nulla fosse accaduto, gli Stilton ritornano alla loro casa di infelicità e Seldom Seen continua a contare i suoi soldi.
Ed è qui che il jazz mostra perfettamente la sua funzione nel contesto del film, aristotelicamente conchiuso in 24 ore. Sì, c’è molto Faulkner in questa pellicola: Eddie, ad esempio, è il perfetto corrispettivo del personaggio di Dilsey in «L’urlo e il furore», ne ha la stessa tranquilla, rassegnata tristezza, la stessa calma, la stessa dignità davanti a drammi dell’universo dei bianchi che la sfiorano incuranti dei suoi drammi, ma soprattutto vi si percepisce una sorta di parodia di quel «Santuario» che Malraux aveva definito «innesto di tragedia greca su un romanzo giallo». Come una tragedia, anche Kansas City è scandito da una serie di interventi del Coro, cioè del la Band che sul podio del locale di Seer “commenta” quel che vediamo sulle schermo. Ma non è il coro attico che usava sottolineare il rapporto problematico e terribile fra l’uomo e il divino o fra l’uomo e la legge; e non è nemmeno que magnifico aggiormento, propostoci l’ anno scorso dal Woody Allen di La dea dell’amore, che rovesciava sul capo del meschino la responsabilità di eventi che soltanto una cultura dotata di un senso religioso oggi sopito poteva identificare in una volontà superiore. Il coro di Kansas City parla una lingua incomprensibile agli eroi di questa storia. Al più, essi ne possono cogliere qualche componente ritmica scambiandola per piacevole entertainment (cioè, come Johnny, possono soltanto truccarsi da neri) ma del jazz costoro non sanno nulla, e il coro commenta, sì, l’azione, ma soltanto dal punto di vista di chi da essa è culturalmente escluso e dunque non può che farlo con la sensibilità e gli strumenti del proprio tesoro espressivo. È possibile che, scorsesianamente, la dozzina di brani del soundtrack sia stata scelta ad arte, cioè in specifica funzione di ogni momento particolare della storia, ma quel che conta è che mano a mano che l’universo della città corre verso un’assoluta entropia noi percepiamo che quel gruppo – e il jazz nel suo insieme – è, come si diceva, l’unico elemento di ordine, l’unica simbolizzazione dei contrasti, l’unico riscatto da una condizione di violenza e di contraddizione. Seldom Seen parla chiaro allo stolido Johnny: «Ascolta questa musica. È Count Basie: fa parte dei motivi per cui non sei ancora morto». E poco dopo, alla fine del suo discorso sulla morte e sul ruolo che egli ha nel porre fine alla vita del giovane, ripete ancora: «Ascolta questa musica». Momento magico, rituale, quasi panico, richiamo a ciò che nella Kansas City in cui viviamo nulla – non il potere e la ricchezza, non la caducità dell’amore e della vita stessa – potrà mai darci: la profondità della perfezione nell’esprimere quello che sentiamo essere il nostro senso del mondo. Nell’universo di Kansas City, che è il nostro, la parola è sempre fraintendimento, oscurità, blateramento, e solo il jazz – la musica di un popolo che non si intende di capre e di conigli e che, pur essendo l’unico a sapere, non può contribuire a far luce sulla verità perché non viene nemmeno interrogato, ma i cui rappresentanti, come si legge nel finale di «L’urlo e il furore», “resisteranno” – può dire tutto, può comprendere tutto.
Franco La Polla, Cineforum n. 360, 12/1996

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