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Lancillotto e Ginevra - Lancelot Du Lac


Regia:Bresson Robert

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Robert Bresson; fotografia (Eastmancolor): Pasquale De Santis; scenografia: Pierre Charbonnier; musica: Philippe Sarde; montaggio: Germaine Lamy; interpreti: Vladimir Antolek Oresek (Il Re), Humbert Balson (Gauvain), Patrick Bernard (Mordred), Laura Duke Condominas (Ginevra), Luc Simon (Lancilotto), Arthur De Montalembert, Charles Balsan; produzione: Mara-Films / Laser production / ORTF Gerico Sound; origine: Francia, 1974; durata: 85'.

Trama:Lancillotto, mandato da re Artú alla ricerca del Graal, torna sconfitto. Egli non sa che Dio ha concesso a Parsifal di ritrovare la sacra coppa, ma ritiene di non essere il predestinato al ritrovamento, poiché, vivendo in peccato, non possiede la Grazia. Assalito dai rimorsi, decide di lasciare Ginevra, moglie di Artú e sua amante, e di cambiare vita per purificarsi; ma dopo un torneo, dal quale esce vittorioso, cede all’amore e rapisce la regina, imprigionata da Artú. L’evento semina la discordia fra i cavalieri, mentre su Lancillotto pesa anche l’uccisione involontaria di un amico durante il torneo: segno della collera divina. Il crimine commesso da Lancillotto ha provocato conseguenze irrimediabili: l’odio e i risentimenti dilaniano i cavalieri, che si uccidono a vicenda. Il film si chiude con la visione dei corpi, privi di vita, ammucchiati l’uno sull’altro nelle loro armature, dopo la fratricida carneficina.

Critica (1):La critica intransigente e quel po’ di pubblico che conserva un palato finissimo lasciano Cannes soddisfatti. Se basta un film a ripagare un festival nel quale al massacro della quantità non ha corrisposto la virtù qualitativa, Lancelot du lac di Robert Bresson fa quadrare i conti. E che non sia stato accettato in concorso, talché l’autore ha fatto pubblicamente sapere la sua indignazione, suona per molti come la prova del nove: alla fiera di Cannes c’è poco spazio per i film di piccolo mercato. Questo è vero solo in parte ma è certamente più probabile trovare domani Lancelot du lac in un capitolo di storia del cinema che ai primi posti del «box office». Il pubblico grande lo giudicherà nobilmente tedioso, e troverà oscena, un vero affronto alla platea l’assenza totale di parentesi erotiche. Bisognerà allora spiegargli, ma con deboli speranze, che il film di Bresson è tutto in alta tensione, e fulmina con la purezza. La fine di Lancelot e di re Artú è infatti reinventata da Bresson con un pieno disprezzo del gusto spettacolare (ultimo esempio ne fu Camelot) con cui il cinema ha sinora interpretato l’avventuroso ciclo medievale dei cavalieri della tavola rotonda. Fedele all’estetica del togliere, della scenografia spoglia, della recitazione fredda – la parentela con Dreyer è sempre più stretta – Bresson ci dà qui soltanto gli scorci di un universo: gli angoli di un castello, le pieghe d’una armatura, il lampo dei pugnali, gli zoccoli dei cavalli, il cuore d’una foresta e la linea degli sguardi. Ma composti con tale sapienza, che dalle cose colte nella loro massima evidenza figurativa scaturisce l’idea, e dalla combinazione di immagine e suono il valore drammatico. Lancelot du lac è un film che in virtù dello stile sublima la realtà ma ce ne offre le pulsioni più segrete.
Quando l’opera inizia, Lancelot è già stato sconfitto. Mandato da Artú in cerca del Graal, la reliquia in cui secondo la leggenda è raccolto il sangue di Cristo, è tornato a mani vuote. Lancelot ignora che Dio ha concesso a Perceval di trovare il sacro vaso, ma sa di non possedere la grazia, e d’esserne indegno: è l’amante segreto di Guenièvre, la regina. Pieno di rimorso, ora Lancelot vuole purificarsi e cambiar vita benché la donna lo supplichi di restarle vicino. Uscito vittorioso da un torneo, Lancelot cede invece all’amore e rapisce la regina, imprigionata da Artú. Che l’evento abbia seminato la discordia fra i cavalieri, e Lancelot abbia senza volere colpito a morte il suo più nobile amico, è un altro segno dello sfavore di Dio. Non serve restituire Guenièvre al re: il peccato ha distrutto la pace, gli amici si uccidono a vicenda. Privi della grazia, i guerrieri di ieri, blindati nelle loro corazze, cadono nel sangue come fantocci.
Poche volte come qui la struttura di un film si è rivelata nel rapporto fra valori sonori e visivi. Lancelot è tutto un contrappunto di rumori e di accensioni figurative. Salvo rare eccezioni (e la più toccante è la cornamusa che commenta il torneo), i suoni di fondo sono lo strepito delle corazze, il passo pesante dei guerrieri, l’alto nitrito dei cavalli, cui corrispondono nello spasimo dell’iterazione immagini di assoluta castità, oggetti e volti tanto più espressivi quanto più Bresson, ignorando le panoramiche, ce ne offre un dettaglio. Se resteranno memorabili le scene del torneo, tutte riassunte nelle gambe nervose dei destrieri, negli alzabandiera e nei visi degli spettatori, Lancelot è da oggi nuovo esempio luminoso delle virtù di un linguaggio che con pochi mezzi suscita una sublime emozione intellettuale.
Il merito è anche dei collaboratori del regista, e in prima fila di Pasqualino de Santis, che come direttore della fotografia ha ottenuto effetti mirabili, ma il film resta tutto di Bresson. I suoi attori (nomi di sconosciuti) sono, con perfetta coerenza, gli elementi di un quadro che assorbe ogni eco pittorico e letterario in una personalissima stilizzazione della storia e della dialettica fra grazia e libertà. La ferocia di quei tempi di ferro e di fuoco, e gli assilli morali di una società imbevuta di spiriti religiosi, sono espressi da Bresson col taglio e il ritmo d’un classico che sublima nell’assoluta limpidità dell’intuizione i suoi tormenti romantici.
Giovanni Grazzini, Gli anni settanta in cento film, Laterza 1978

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Robert Bresson
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